INCIPIT D’AUTORE di Grazia Valente
Incipit d’autore: Cechov, Maupassant, Kerouac
di Grazia Valente
Le prime dieci righe di un’opera letteraria emanano un fascino particolare. Non soltanto perché sono proprio le prime, fatidiche dieci righe quelle che – a detta degli esperti editoriali – possono decidere sulla validità o meno di un’opera, ma perché è proprio dal cosiddetto “incipit” che anche il lettore comune viene conquistato. Ed è dall’incipit che, in un certo senso, si misura la capacità dell’autore di conquistare il lettore.
Prendiamo, ad esempio, il racconto Il monaco nero di Anton Cechov (1860-1904), in cui viene esplorato il labile confine tra genio e pazzia, e leggiamo insieme l’inizio.
“Andréj Vassilievic’ Kovrin, un diplomato, si era strapazzato, guastandosi i nervi. Non si curava, ma un giorno, di sfuggita, davanti a una bottiglia di vino, parlò con un amico dottore, e questi gli consigliò di passare la primavera e l’estate in campagna. Giunse a proposito una lunga lettera di Tania Pessotski, che lo pregava di andare a Borissovka e di starci come ospite. Ed egli stabilì che gli occorreva in realtà fare un giretto. Dapprima – si era in aprile – se ne andò a casa sua, nella natia Kovrinka, e lì soggiornò in solitudine tre settimane, poi, dopo aver atteso il bel tempo, si diresse in carrozza dal suo educatore e tutore Pessotski, un floricoltore noto in Russia.”
Poche righe più avanti, Cechov ci descrive la casa, dove c’era sempre “un’atmosfera tale che ti saresti potuto metter lì a sedere e scrivere una ballata.”
E’ incredibile la quantità di notizie che Cechov riesce a fornirci in queste prime righe del suo racconto. Apprendiamo, innanzitutto, che il protagonista, Andréj, è – come diremmo oggi – un uomo di cultura della classe borghese benestante (“un diplomato” che può permettersi una vacanza-convalescenza di sei mesi); poi, che era esaurito, poco incline a curarsi, restio alle confidenze, che potevano avvenire solo “davanti a una bottiglia di vino” ma comunque arrendevole davanti alle insistenze di un amico-dottore. Sappiamo inoltre che Andréj è nativo di Kovrinka, non è di natura molto socievole (“soggiornò in solitudine tre settimane”) e non si preoccupa del tempo meteorologico.
Cechov, in poche righe, ci ha già introdotto due personaggi, Andréj, il protagonista, e Tania, che ancora non conosciamo ma della quale sappiamo già l’esistenza (niente male, come suspence!). Ora, egli vi aggiunge il personaggio del suo tutore, che coltiva fiori in modo eccellente, visto che “è noto a Mosca”.
Quando avremo letto l’intero racconto sapremo che questi ne sono i tre personaggi principali. Ma, soprattutto, egli ha già trasmesso a chi legge il senso di inquietudine che caratterizza l’atmosfera del racconto e la personalità del suo protagonista.
Cechov si avvale spesso di una tecnica induttiva, di modo che il lettore interagisca con l’autore e scopra in modo indiretto le notizie che questi vuole trasmettergli. Tutto ciò crea un effetto di coinvolgimento che stimola la lettura.
Inoltre, al personaggio Andréj Cechov non lesina i difetti, rendendolo in questo modo immediatamente familiare, nella sua umanità.
Probabilmente, nel personaggio vi sono molti aspetti autobiografici.
Passiamo ora a un altro famoso racconto, questa volta di Guy de Maupassant (1850-1893): La piccola Roque, storia di un delitto avvenuto in un piccolo paese della Francia.
“Il procaccia Médéric Rompel, che i paesani familiarmente chiamavano Mede, partì alla solita ora dall’ufficio postale di Rouy-le-Tors. Traversò la cittadina coi suoi lunghi passi di vecchio soldato, tagliò per i campi di Villaume per giungere sulla riva della Brindilla da cui, seguendo la corrente, arrivava al villaggio di Carvelin, dove cominciava la distribuzione.
Camminava alla svelta, lungo il fiumicello che spumeggiava, brontolava, ribolliva e correva nel suo letto erboso, sotto una volta di salici. I grossi ciottoli, fermando la corrente, creavano attorno a sé un tondo rigonfio d’acqua, come una cravatta che finiva in un nodo di schiuma. Qua e là, c’erano cascate alte un piede, talvolta invisibili, che facevano, sotto le foglie, sotto le liane, sotto un tetto di verzura, un chiasso iroso e dolce, più oltre le sponde si allargavano, s’incontrava un tranquillo laghetto nel quale le trote guizzavano in mezzo a quei lunghi capelli verdi che ondeggiano in fondo ai ruscelli calmi.”
Qui, diversamente dal precedente racconto di Cechov, Maupassant descrive un luogo uguale a mille altri: un torrentello, i salici, i ciottoli del piccolo fiume, un laghetto con le trote. Ma questo paesaggio così comune, rassicurante, banalmente simile ai paesaggi che tante volte ci è accaduto di incontrare, nella descrizione di Maupassant si anima, riempiendosi di suoni che egli ci fa udire come se il lettore si trovasse proprio lì, sulle rive di quel fiume, lungo quella strada , sotto quei salici e muovesse i propri passi accanto a quelli del postino. A questo punto comprendiamo davvero a quali livelli possa arrivare l’arte della scrittura.
Con questo incipit idilliaco l’autore ci prepara magistralmente alla tragedia successiva (la scoperta del cadavere della piccola Roque), ci conduce per mano sul luogo del delitto in modo che il lettore possa assistere alla scena drammatica, anticipata da due immagini inquietanti, quella del “tondo rigonfio d’acqua, come una cravatta che finiva in un nodo di schiuma”, e quella delle alghe :“in mezzo a quei lunghi capelli verdi che ondeggiano in fondo ai ruscelli”, vivendola con gli occhi del postino.
Proprio qui, secondo noi, vi è la chiave per comprendere la grandezza di questi scrittori classici, che si avvalgono spesso di descrizioni minuziose, anche se mai noiose (come sono, invece, le descrizioni inutili), in quanto essenziali all’economia del racconto. Essi inoltre ci insegnano che scrivere “bene” significa soprattutto scrivere con naturalezza e semplicità, un tratto che appartiene ai grandi narratori, e che è il risultato di un lungo, estenuante lavoro di ricerca e di selezione.
Ma lasciamo gli autori ottocenteschi e passiamo a un autore del secondo Novecento che appartiene ormai al mito: Jack Kerouac (1922-1959), il “padre della Beat Generation” secondo una formula ormai entrata nel lessico letterario.
Di Kerouac il romanzo “Sulla strada”, del 1957, è probabilmente quello che meglio lo definisce, non soltanto perché autobiografico, ma proprio per il suo carattere di “manifesto” della Beat Generation.
“La prima volta che incontrai Dean fu poco tempo dopo che mia moglie ed io ci separammo. Avevo appena superato una malattia della quale non mi prenderò la briga di parlare, sennonché ebbe qualcosa a che fare con la triste e penosa rottura e con la sensazione da parte mia che tutto fosse morto. Con l’arrivo di Dean Moriarty ebbe inizio quella parte della mia vita che si potrebbe chiamare la mia vita lungo la strada. Prima di allora avevo spesso sognato di andare nel West per vedere il continente, sempre facendo piani vaghi e senza mai partire. Dean è il tipo perfetto per un viaggio perché nacque letteralmente per la strada, quando i suoi genitori passarono da Salt Lake City, nel 1926, in un vecchio macinino, diretti a Los Angeles. Le prime notizie su di lui mi furono date da Chad King, che mi aveva fatto vedere alcune sue lettere scritte in un riformatorio del New Mexico. M’interessai enormemente a quelle lettere perché chiedevano a Chad in modo così ingenuo e dolce di insegnargli ogni cosa su Nietzsche e tutti i meravigliosi argomenti intellettuali che Chad conosceva …”.
Già in queste righe d’attacco del romanzo si rileva una serie di notizie molto interessanti, ma soprattutto significative per accostarci alla psicologia dei personaggi e all’ambiente nel quale essi si muovono.
Intanto appare evidente come lo stile del romanzo sia estremamente diretto, senza sotterfugi, quasi brutale nella sua ansia di buttare fuori la verità.
All’Io narrante si affianca, fin dalla prima riga, il personaggio di Dean, alla seconda riga Kerouac già confessa il fallimento del suo matrimonio, alla terza percepiamo il dolore per la lunga malattia che ha interessato non soltanto il corpo ma anche l’anima di Sal Paradise alias Kerouac, il protagonista , tanto profondamente che egli così descrive: “della quale non mi prenderò la briga di parlare”, per poi aggiungere subito “con la sensazione da parte mia che tutto fosse morto” .Alla sesta riga l’autore già ci spiega la “ragione” del romanzo, il motivo che lo ha indotto a vivere “lungo la strada”, l’incontro con Dean, l’amico che ancora non conosciamo ma che indoviniamo avere, nel romanzo-confessione di Kerouac, un ruolo molto importante (sappiamo che si tratta di Neal Cassady, l’inseparabile amico di vagabondaggi e di esperienze “estreme” di Kerouac). Alla decima riga qualche tratto di Dean-Neal incomincia a intravedersi: “nacque per la strada”, “alcune sue lettere scritte in un riformatorio del New Mexico” chiedevano di “insegnargli ogni cosa su Nietzsche”.
Ci pare quindi che anche Kerouac, in questo romanzo che – per gli argomenti trattati e lo stile letterario – è assai diverso dai romanzi degli autori presentati in precedenza, rispetti, consapevolmente o meno, la prima regola d’oro di ogni narratore: non tediare con inutili descrizioni, non far sorridere con situazioni improbabili, non far sbadigliare con grottesche saccenterie, rispettare il lettore proponendogli storie vere o verosimili, con personaggi reali o attinti dalla realtà, umani e non inerti manichini. Naturalmente, sono ammessi i romanzi allegorici, se ci aiutano a comprendere meglio la realtà.
Concludendo questa breve analisi vorrei aggiungere che, ovviamente, l’incipit di un libro non è il libro e non va pertanto mitizzato. Ma esso può essere utile a farci comprendere, sin dalle prime battute, se vi sia l’intenzione, da parte dell’autore, di dirci davvero qualcosa che gli sta a cuore, oppure se questi voglia soltanto portarci a spasso con le parole. Così, tanto per saperci regolare e agire di conseguenza.
(marzo 2019)