QUASI-REALE racconto di Wanda Scuderi
Caro Ettore,
finalmente ho trovato il coraggio di scriverti! Non sai da quanto tempo volevo farlo, ma la mia timidezza, che tu conosci bene, finora me lo aveva impedito.
Per tutti questi anni ho coltivato nel mio cuore il ricordo di te e del nostro meraviglioso amore. Non c’è stato giorno, credimi, in cui io non mi sai svegliata col tuo nome sulle mie labbra e, guardando il sole del mattino o il biancore delle nubi dalla finestra, non ti abbia mandato col pensiero un: «Buon giorno amore mio!» Come sicuramente sai, ora abito in città e forse, proprio a causa di questo, ci siamo persi di vista… Ma non è certo morto il sentimento che ci lega e che è nato lì, in quella casa, anzi è più vivo che mai. Sto parlando proprio di quella casa, della casa della nostra infanzia, la casa che, come ho appena visto, hai messo in vendita. Non ti dico l’emozione quando ho letto quell’annuncio, così per caso. Stavo cercando una casetta per andare in vacanza con un’amica e toh! vedo la foto della tua casa in vendita, proprio lì su quel giornale. Nella foto tutte e due le nostre case… adiacenti e legate, come legati per sempre sono i nostri cuori. A quella vista mi è sembrato che il pavimento sprofondasse e che il mondo mi girasse intorno…Dopo alcuni minuti di emozione vorticante e lacerante, mi è poi salita la rabbia, una grande rabbia che mi ha fatto urlare a squarciagola tutto il mio dolore.
Ma come puoi vendere la casa che è stata teatro del nostro amore, che ha segnato così profondamente prima la nostra adolescenza e poi la nostra vita? Non puoi farlo!
Non devi farlo!
Ogni giorno mi alzavo all’alba, molto prima del dovuto, mi lavavo, mi vestivo silenziosamente cercando di non svegliare i miei genitori e i miei fratelli e poi mi mettevo davanti l’uscio, su quel balconcino, e ti aspettavo… anche per un’ora. Poi, finalmente uscivi dal portoncino, poggiavi lo zaino per terra e ti sporgevi dalla ringhiera. Tu non eri molto puntuale: a volte arrivavi proprio all’ultimo e potevamo guardarci solo per pochi minuti. Pensavo che forse avevi sognato di me e non avevi avuto voglia di alzarti per questo… Io ti guardavo dritta dritta: lo so potevo sembrarti un po’ sfacciata, ed invece ero così felice di vederti che riuscivo a superare la mia timidezza. Mi piaceva guardarti, osservare il tuo profilo, i tuoi capelli sulla nuca, le tue spalle. Eri bellissimo! Tu a volte mi sbirciavi sottecchi, ma più spesso facevi finta di niente e osservavi con apparente attenzione l’angolo della strada. Pensavo che forse tua madre ti stesse osservando e tu non volevi mostrarle l’interesse che avevi per me. Eri timidissimo e imbarazzato anche tu! Ogni mattina fantasticavo di poter andare a scuola insieme a te, che sicuramente aspettavi con trepidazione l’occasione per farlo. Mi facevo tanti programmi su cosa dirti, emozionandomi alla sola idea dei miei capelli che potevano sfiorare il tuo braccio. Ora posso confessarti che ci restavo male quando invece arrivava Giuseppe col motorino e tu saltavi lesto dietro di lui, aggiustandoti lo zaino sulle spalle. Mentre schizzavate via, superavo la delusione ricambiando quel cenno di saluto festoso che mi indirizzavi! Una volta – mi hai persino mandato un bacio con la mano! Ti ricordi, Ettore? Sappi che per quel gesto amorevole non dormii per una settimana! Finalmente una mattina è successo: abbiamo fatto la strada insieme e il mio sogno si è avverato! Fu mia madre a chiedertelo, perché mio padre si era ammalato. Per tre giorni andammo insieme e saltai colazione, pranzo e cena per l’emozione. Il primo giorno rimanemmo zitti tutti e due per tutto il tempo. Il secondo giorno mi hai chiesto: «Come vai a scuola?» Ed io ti risposi: «Bene, ma non mi piace la matematica». Tu dicesti: «Se è per questo, neanche a me», e ridemmo insieme. Il terzo giorno ti chiesi: «Sei felice?» Mi rispondesti: «Non so, un po’ sì, ma vorrei di più». «Anche io vorrei di più», ti dissi. «Bisogna andare via», rispondesti tu con un sorriso. Io mi sentii tremare il cuore. Non mi sentivo pronta per andare via con te: e gli studi e la famiglia? Rimasi zitta e poi capii nel tempo che tu avevi interpretato quel silenzio come un rifiuto a scappare con te. Ora ti posso dire che avrei voluto dirti «Sssssììì», urlare «Ti voglio, voglio stare con te», ma non ebbi il coraggio e di questo mi rammarico ancora adesso.
Per rimediare, il giorno dopo misi un piatto con un dolcetto e lo legai alla bell’e meglio sulla ringhiera di casa tua, pensando che ti facesse piacere prenderlo come merenda per la scuola. Il giorno dopo il piatto non c’era più, ma tu non mi ringraziasti mai di quel pensiero. Pensai che tu eri offeso per il mio rifiuto e che non volessi parlarmi più. Ne ebbi conferma quando da quel mattino non ti affacciasti più al balconcino. Infine l’amara sorpresa: me lo dissero i miei genitori e ricordo ancora il mio trauma. «Ma come, partito? Non è possibile! Per andare dove? E torna? Non ritorna? Oddio, come farò!?» Perché non me lo avevi detto? Non avrei potuto immaginare che eri così addolorato che, per non vedermi più, per non soffrire oltre, tu volessi andare via per sempre. Emozioni e pensieri mi turbinavano e continuarono a torturarmi per mesi, per anni, per sempre, nonostante poi le vicende della vita portarono anche me via da quel luogo, da quella casa, per abitare in una fredda e inumana città. In questi anni, lontana da te, dalla fonte del mio amore, ho cercato di sopravvivere e di farmene una ragione, ma non ho mai smesso di pensarti. Non ho più amato nessuno, perché non c’era uomo che reggesse al tuo confronto, e quindi non mi sono neanche sposata. Ho vissuto tutti questi anni nella speranza di rivederti, ma non avevo alcun tuo recapito, e non sapevo dove e come trovarti. E sono certa che anche tu, carissimo Ettore, non riuscivi a trovarmi per lo stesso motivo. Poi, in quell’annuncio ho visto realizzarsi il sogno della mia e della nostra vita e ho trovato finalmente il modo di rintracciarti. Sono certa che tu aspetti ancora da allora un mio cenno, una mia risposta. Ebbene adesso posso dirti che sono disposta ad andare via con te, ovunque tu vorrai. Vieni a prendermi amore mio, ti aspetto! E non vendere la casa del nostro amore, ti prego, ti prego, ti prego! Attendo con trepidazione la tua risposta.
la tua Sara.
Cara Sara,
Ti rispondo principalmente per chiarire alcuni punti e perché sono stato educato in un certo modo. Devo dire che ho faticato un po’ a rammentare quel periodo della mia infanzia e poi finalmente mi sono ricordato di te, non fosse altro che per il fatto che mi chiamavi sempre Ettore. Per l’ennesima volta ti correggo: non mi chiamo Ettore, ma Ernesto, e mi pareva che ai tempi ti avessi fatto capire quanto mi dava fastidio essere chiamato Ettore – tra l’altro sei sempre stata l’unica a farlo – ma poi, pensando che per te era un gioco, avevo lasciato correre. Non vorrei deluderti, ma a me piace la chiarezza e devo rettificare alcune tue considerazioni evidentemente frutto di un tuo quasi-reale, cioè di un tuo personalissimo punto di vista, o di qualche equivoco che, ahimè, si è generato.
Non è che io non ti guardassi per timidezza, o per non farmi vedere da mia madre: guardavo l’angolo della strada, perché aspettavo l’arrivo del mio compagno Giuseppe che era perennemente in ritardo, e questo mi creava ansia. Non ricordo che anche tu al mattino fossi affacciata al portoncino accanto, non ho proprio alcun ricordo o immagine di ciò. Se era come tu dici, mi dispiace per te, ma non me ne sono mai accorto.
In quanto al saluto: salutavo sempre mia madre che mi guardava dall’uscio ed era a lei che avevo mandato quel bacio, ma solo lo suppongo, perché è un piccolo dettaglio che non posso ricordare con chiarezza. Quei giorni in cui andammo insieme a scuola, quelli sì, che me li ricordo: tua madre mi aveva chiesto il favore di accompagnarti, dato che tuo padre era ammalato ed io lo feci con un po’ di riluttanza, perché avrei preferito di gran lunga andare in motorino con Giuseppe. Durante il tragitto a piedi mi riempisti la testa di domande sciocche e inutili, ed io invece avrei voluto un po’ di silenzio, mentre ripassavo mentalmente la lezione di storia su cui quel mattino sarei stato interrogato. Se ti ho detto che avrei desiderato andare via, non era certo un invito a farlo insieme. Odiavo l’ambiente ristretto del paesino in cui vivevo e desideravo andare ad abitare in città, cosa che, appena ho potuto, ho fatto. In quanto al dolce nel piatto, me lo ricordo perché presi una tremenda sgridata da mia madre, che pensava fosse stata opera mia, in quanto i gatti randagi avevano banchettato con quello, seminando sporcizia sull’uscio. Per il periodo che non mi affacciai al balconcino credo sia stato quando ho preso la pertosse e i miei genitori mi mandarono in montagna dai nonni. Quell’anno fui bocciato e continuai gli studi in un collegio in città. Mi dispiace che tu abbia pensato che io fossi innamorato di te: avevo 14 anni e tu 6-7 credo, per me eri una bambina vicina di casa, e basta. A volte anzi mi sembravi un po’ impicciona e fastidiosa, come quando ti ostinavi a chiamarmi Ettore, ma niente di più. Mi lusinga pensare che mi tu mi abbia amato così tanto, e mi dispiace anche che non ti sia sposata per questo. Devo dirtelo: hai fatto male! Io adesso sono nonno di due stupendi nipotini e posso dirti che ho vissuto una vita piena di amori, conquiste e realizzazioni. In quanto alla casa… devo darti un’altra delusione, ma è giusto che tu sappia. L’annuncio che hai visto è vecchio, e non so perché continua ad essere presente nei giornali. Mi viene un dubbio: ma hai guardato la data del giornale?
La casa ed anche le altre case limitrofe del quartiere sono state già demolite e al loro posto è nato un quartiere moderno con tante belle case e vive attività. Devo dirti che la cosa non mi dispiace affatto: l’edificio era diventato fatiscente e rifugio di gatti, insetti e immondizie. Ogni tanto, se passo dal paese, faccio la spesa con piacere nel nuovo Centro commerciale del quartiere. Quella foto è l’unica traccia di quella casa, e, se ti fa piacere, puoi conservarla tra i tuoi ricordi. Adesso devo tornare ai miei impegni di nonno. Spero che tu possa trovare la tua realizzazione in un una direzione diversa.
Cordiali saluti,
Ernesto