CHI NON SA FAR STUPIR… articolo di Pietro Paolo Capriolo
Della necessità di riformare la scuola si parla da sempre, addirittura da millenni. Mi piace ricordare la disputa nel Satyricon di Petronio (I sec. d. C.) fra il personaggio Encolpio ed il retore Agamennone dove la scuola viene definita esercizio di dissennatezza. La bella atmosfera dell’otium della classicità nell’odierno quotidiano è offuscata da tutta una congerie di orpelli burocratici, relazioni, riunioni inconcludenti, assilli temporali di programmazione e verifica, svalutazione del credito professionale della funzione docente…
Al momento in cui scrivo, si hanno solo indiscrezioni e le anticipazioni fornite dallo stesso ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara su quanto dovrebbe investire il mondo della scuola italiana nel prossimo futuro. In complesso molte cose buone, a partire dal ritorno al corsivo così importante nella costruzione del pensiero, le poesie a memoria, il latino, la musica, la storia e la geografia… su suggerimenti di consulenti d’eccellenza, quali Carlo Marazzini, Uto Ughi, Ernesto Galli della Loggia. Speriamo in bene, anche per le scienze.
Viviamo letteralmente circondati dalla tecnologia (che è poi l’applicazione tecnica del sapere scientifico alle nostre esigenze di vita, di svago, di comunicazione…) e verrebbe da supporre che nelle nostre scuole lo studio delle scienze debba avere un posto privilegiato e dominante. Nella realtà è spesso “la Cenerentola” degli insegnamenti, bistrattata perfino dai diretti addetti ai lavori, quando sono anche titolari della cattedra di matematica. Ore destinate agli argomenti scientifici, sovente sono accorpate con l’altra materia dominante ed asservite a verifiche; capitoli di testo vengono trattati a volo d’uccello, gli esperimenti sono considerati perdita di tempo e spesso perfino demandati all’iniziativa degli studenti…
Due flash mnemonici si accendono su figure avute come insegnanti. La più invadente e tragica delle reminiscenze riguarda una professoressa delle superiori che si degnava una volta al trimestre di riunirci nel gabinetto di fisica dell’istituto per farci assistere a qualcosa di concreto desunto dai libri su cui s’era studiata la teoria. Per noi era un’opportunità supplementare, nemmeno d’obbligo, per lei forse una voce prevista dalla funzione di docenza o incentivata. Ma non voglio far risaltare questa maligna supposizione, bensì l’esclamazione: «Non so perché, ma quest’esperimento non mi riesce mai!» che immancabilmente prima o poi le sfuggiva ad ogni convocazione. La cosa suscitava furtive risatine sul momento e posteriori commenti riguardanti la poca sagacia nello scegliere gli argomenti e nel non testarli prima. Voci di corridoio asserivano che così avvenisse da anni e che gli esperimenti non variassero, comunque, mai. Guai poi a lasciarci sfuggire di aver chiesto chiarimenti ad un altro giovane insegnante (allora assistente volontario presso una facoltà cittadina e divenutone in seguito eminente cattedratico) disponibilissimo ad elargire il sapere pure nei momenti dell’intervallo!
L’altro ricordo invece è positivo, anche se viziato dalla penuria di mezzi e dalla metodologia della maestra, anziana però d’intraprendenza naif. Le chiamava “esperienze” e ne ricordo più d’una: l’anello di Newton, il potere detergente del batuffolo di cotone imbevuto d’alcool passato dietro le orecchie di compagni già igienicamente affidabili, l’effetto della luce del sole sulle foglie… Ma l’esperimento che più ebbe per me una valenza scientifica fu quello dei vasi comunicanti. Vi descrivo come avvenne e da ciò, nonostante il benefico imprinting esercitato su di me, risalterà anche come non dev’essere compiuta una dimostrazione così bella e coinvolgente.
L’aula era molto spaziosa, stipata degl’ingombranti ma ergonomici banchi a due posti dal predellino incorporato e ad altezza a scalare dal fondo verso la cattedra, e noi tutti fummo autorizzati ad alzarci in piedi nello spazio a destra dell’asse che fungeva da sedile. Non era previsto allora che qualche alunno mancino sopravvivesse alla correttiva costrizione scrittoria, per cui lo spazio sul piano d’appoggio per muovere il braccio destro corrispondeva anche in verticale allo spazio per sostare sul predellino. La brava signora ci mostrò un oggetto di vetro, descritto come fragilissimo, costituito da tre contenitori verticali di forma diversa (uno con sferette, uno attorcigliato a spirale e l’altro semplicemente cilindrico, ma inclinato) collegati sul fondo da un tubicino anch’esso di vetro. Lei versò nel più capace di essi dell’acqua limpida e questa risalì e si assestò in ognuno allo stesso livello. Per noi fu più che altro un atto di fede (data la distanza e la trasparenza dell’acqua) confermato poi dal permesso di sfilare davanti alla cattedra per dargli un’occhiata da vicino e ritornare a nostro posto per farne la descrizione scritta.
Quale stupore, al mio primo incarico da insegnante, nel ritrovare in un armadio lo stesso sussidio didattico debitamente incartato. Volli sperare che lo strumento fosse stato acquistato e sostituito più volte da quando comparve sul catalogo d’una nota ditta specializzata per le forniture alle scuole e che fosse stato utilizzato a distanza ravvicinata e maneggiato, pur con allarmata cautela, anche dagli scolaretti. La cura con cui era riposto e conservato mi fece però supporre tutt’altra cosa.
Ebbene, dopo quarant’anni, quando mi sono congedato da quella stessa scuola, il fragilissimo strumento era ancora intatto, eh sì che lo abbiamo usato parecchie volte, pur preceduto da una breve descrizione del mio lontano incontro con quel sussidio didattico. Come sintomo d’usura, al massimo recava in posti poco accessibili qualche sedimento azzurro dovuto all’evaporazione dell’acqua colorata impiegata per evidenziare il comportamento del liquido nelle fasi di risalita e di stabilizzazione del livello uguale in tutti i contenitori.
Ma di vasi comunicanti è bello parlare e fare pratica utilizzando tubicini di gomma trasparente, bottigliette di plastica dai tappi perforabili con semplici forbici appuntite, bicchieri usa e getta a forma di calice e coppa (recuperati al termine di ricevimenti), giocando sull’effetto cromatico e sulla collaborazione degli alunni stessi che in coppia devono accordarsi per alzare, abbassare e fermare il livello dell’acqua colorata. Il tutto senza rischio di causare costosi danni, anzi riutilizzando e nobilitando a scopo divulgativo materiale spesso destinato alla discarica o al termovalorizzatore più vicini. Un po’ di colore poi, oltre a dare visibilità all’acqua, ha il valore aggiunto dell’affascinazione ed è un ingrediente intrigante per i piccoli discenti sia quando fungono da spettatori e sia quando sono direttamente coinvolti, tanto che qualcuno giunge a lamentarsi di non aver potuto ripetere l’esperimento anche con acqua diversamente colorata, quasi questa variazione cromatica comportasse il ricorso ad altri principi fisici!
Quando si ha avuto la fortuna di svolgere la funzione di insegnante distaccato su laboratori in più scuole, con alunni di età variabile in base alla classe frequentata, ci si specializza anche sulle varianti per proporre lo stesso principio scientifico con modalità diverse: con i più piccoli (scuola dell’infanzia e primi due anni della primaria) è quasi implicita un’iniziale componente magica e spettacolare che viene successivamente sfatata dalla manipolazione ludica individuale e solo dopo si introduce la nozione attraverso il contributo e le osservazioni dei partecipanti; con i più grandicelli si fa affidamento su curiosità e desiderio di investigare, puntando soprattutto alla convinzione che quanto è potuto succedere con Pierino a Milano è ripetibile da Luisella a Torino e da chiunque in ogni dove. Per gli studenti di maggiore età, più che avere uno scopo dimostrativo (da secoli si ha la certezza del fatto), l’esperimento assume un valore di rinforzo mnemonico di cognizioni come non avviene con il solo studio sul manuale. Aggiungo che qualche volta la riuscita spettacolare di tutta una serie di manipolazioni secondo criteri algoritmici testati riveste un po’ la valenza di “ricompensa” per la fatica di ingurgitare formule e concetti difficili.
Desidero descrivere alcune procedure per realizzare un semplicissimo eppur molto coinvolgente exibit scientifico, appunto quello dei vasi comunicanti. Basterebbero due bicchieri o barattoli con uno spezzone di tubicino di gomma, ma l’esperienza mi rammenta che l’agitazione dei piccoli discenti spesso fa sì che questo fuoriesca dai contenitori, provocando allarmanti allagamenti. Per questo ricorro spesso a due bottigliette per bevande gassate con circa mezzo metro di tubicino di gomma, possibilmente trasparente. I tappi vanno bucati (con trapano, succhiello a mano, punta delle forbici fatta debitamente ruotare…) in modo da produrre un foro leggermente più stretto del diametro del tubicino che gli viene infilato dentro a forza e spinto oltre per almeno un centimetro. La leggera strozzatura che si forma evita da sola di ricorrere a sigillanti siliconici. Perché il flusso del liquido avvenga, bisogna che i tappi non siano avvitati completamente e permettano però il mantenimento del tubicino in posizione. Si può ricorrere anche alla “sorpresa” di impedire il travaso dell’acqua serrando i tappi: pur alzando un contenitore rispetto all’altro più in basso, l’aria presente impedisce che il volume disponibile vari e faccia spazio al liquido in arrivo. Svitando il tappo, l’aria di ostacolo “se ne va nell’aria” (come dicono i ragazzi) e lo spazio si libera e l’acqua può discendere. Ho realizzato intriganti strumenti con due tubicini posizionati ad altezze diverse sotto i tappi, per consentire lo scambio simultaneo acqua ed aria, facendo risaltare a mezzo di un po’ di detersivo per i piatti la risalita dell’aria (con la schiuma) dal contenitore inferiore a quello superiore. Nel libro Il senso di fare scienze. Un esempio di mediazione fra cultura e scuola, ediz. Bollati Boringhieri, Torino, 1995, compare una fotografia di un alunno che utilizza questo marchingegno scambiatore acqua ed aria per scandire il tempo come una clessidra atipica.
Procurarsi il tubicino presso bricocenter, ferramenta, negozi di attrezzature enologiche, vivaisti. A meno che non sia nuovo e proveniente da confezioni non ben sigillate o semplicemente scadute, non ricorrete a materiale ospedaliero che, a dire il vero è molto invitante per la sua flessibilità, ma se proprio lo ritenete indispensabile, per questioni igieniche, non volendo consigliarvi l’appropriazione indebita a mezzo operatori sanitari, compratelo in farmacia. In commercio ne esistono di vari diametri e di diversa composizione: preferite i più morbidi. Negli scaffali di vivaisti dove c’è il materiale destinato alla micro-irrigazione, si trovano pure raccordi a tre e a quattro vie e mini-valvole. Si possono così coinvolgere due, tre, quattro ragazzi per volta che devono coordinarsi per non creare piccole esondazioni.
Ho realizzato un “gioco di prestigio” con tubicini mimetizzati nel gambo dei calici (quelli componibili, usa e getta) collegati con un raccordo a tre vie che finivano sotto un banale coperchio di una scatola che li mascherava. Alzando l’allestimento per poter vederlo anche di sotto, ecco la rivelazione dei tre tubicini collegati fra loro. Per chi volesse cimentarvisi indico come fare. Per forare il fondo dei calici di plastica sottile senza incrinarli, occorre un po’ di tempo ed attenzione particolare; si possono usare seghetti da traforo ma è meglio strofinarli avanti ed indietro su di una lima poggiata sul tavolo. I tubicini questa volta vanno fissati con il silicone o colla a caldo, dopo averli fatti sporgere di qualche millimetro dal fondo, però ancora nascosti dallo stelo colorato del calice. Nello spazio intorno alla bocca del tubicino sporgente nei bicchieri, all’estremità, si deposita del colorante alimentare di colore diverso. C’è in polvere, concentratissimo ed in uso presso gelatai e pasticceri, o liquido, reperibile in fiale presso i supermercati nel reparto candeline e decorazioni per torte, da depositare con una siringa. Versando acqua limpida in quello di centro, essa risale anche negli altri due, colorandosi diversamente. L’effetto cromatico a sorpresa è la “magia” dell’esperimento. Il verde e il rosso utilizzati agli estremi, nel mio caso, richiamano un po’ la nostra bandiera.
Tre o quattro calici collegati con questi tubicini diventano poi uno stimolo di coordinazione motoria e d’intesa fra i partecipanti per accordarsi su chi e quando debba sollevare o abbassare il proprio recipiente per non produrre esondazioni involontarie e far finire il “gioco”.
L’aspetto scenografico di tanti miei allestimenti ha fatto sorgere obiezioni provenienti da docenti bacchettoni che nell’apprendimento non ammettono distrazioni ludiche o eterodosse. Sempre ho ribattuto che proprio da exibit come questo si può partire per trattare/ripassare nozioni su soluzioni, solventi e diluenti a partire dall’acqua che ricopre gran parte della Terra, nonché di “matematica bruta” su volumi ed equivalenze di centimetri cubi e misure di capacità.
Una ex alunna, incontrata in un supermercato, mi ha confidato di aver scelto un certo indirizzo di studi proprio dallo stimolo esercitato su di lei dai miei pastrocchi. Come ho principiato la trattazione con reminiscenze letterarie, credo di poter ben concludere con l’invito ai docenti a saper “perdere tempo” con attività stimolanti citando, pur in un contesto differente, il noto verso del massimo esponente della poesia barocca Giambattista Marino (1569–1625): «Chi non sa far stupir, vada alla striglia!» (da La Murtoleide: Fischiate, Torino 1608).