VIAGGIO DI UN TARLO IN UN’OTTAVA racconto di Letizia Gariglio (Terza Parte)
Esplorava DO ormai da parecchio quando improvvisamente si rese conto che il mondo in cui viveva era un mondo molto regolare: aveva angoli ben squadrati. Poté essere certo anche del colore uniforme che lo ricopriva tutto: il bianco. Poi si accorse, non senza un tuffo di preoccupazione, che al termine della piattaforma si profilava l’insidia di un baratro: una voragine stretta e lunga, una specie di lungo taglio il cui fondo non si poteva nemmeno intravedere. Una profonda angoscia l’assalì. Tuttavia:
«Ho appena iniziato il mio viaggio, non devo farmi sorprendere dal senso di angoscia. Sono certo che tutti i grandi esploratori l’hanno provata, scalando le montagne, salpando sui mari, affrontando la durezza dei ghiacci. E io, dunque, vorrò farmi bloccare da un taglio profondo nella mia roccia? No, dovrò trovare il modo di superarlo», si disse, cercando di darsi coraggio.
Già prima che nascesse sua madre gli aveva raccontato miti e storie, che lui ora non ricordava nei dettagli, ma attraverso quelle storie sua madre gli aveva trasmesso l’idea che i tarli fossero al mondo per “seguir virtude e conoscenza”: dovevano saper divenire abili, coraggiosi, talvolta persino eroici. Quando avevano una meta dovevano saperla inseguire con tenacia, quando anche le avversità si opponevano, dovevano avere persino un certo gusto per l’avventura, quasi fino alla temerarietà. Dai racconti di sua madre Carlo, il tarlo, si era formato l’idea che i tarli fossero davvero importanti per il mondo.
«Forse», pensò ora, «noi tarli siamo al centro del mondo.
In ogni caso lui adesso si trovava sull’orlo di un abisso: un taglio profondo lo separava dalle terre che si intravedevano intorno a lui, e sebbene non si profilasse a distanza nessuna montagna e il paesaggio si delineasse piuttosto monotono, come una pianura sterminata, Carlo il tarlo non voleva rinunciare a conoscere quel pezzo di universo che si profilava accanto al suo. Decise per una ulteriore dettagliata esplorazione attorno a sé prima di scegliere con quali mezzi avrebbe affrontato il mostro dell’abisso.
Fu così che si accorse, quasi all’improvviso, di una specie di promontorio, alle sue spalle, di terra rilevata sulla piattaforma, scura come la pece. Si sforzò di portare lo sguardo all’orizzonte. La nera collina era più stretta e forse più corta della sua terra, la bianca piattaforma, ma sembrava incunearsi fra di essa e la terra bianca adiacente, da cui lo divideva la voragine. Non solo: la stessa voragine si prolungava fino a dividerlo dalla collina stessa. La profondità degli abissi, dunque, gli impediva di spostarsi liberamente per conoscere il resto del mondo. Mentre rifletteva sul da farsi, sentì gli ospiti umani intorno a lui mentre parlottavano tutti insieme a voce alta, poi all’improvviso il cielo, che prima appariva color mogano, si aprì. Sentì la madre di Mani Impiastricciate che diceva:
«Su, avanti, devi fare i tuoi esercizi al pianoforte. Te l’ho già aperto. Vieni.».
Il ragazzino piagnucolava e per convincerlo sua madre gli infilò in bocca un biscotto. Alla fine sentì dall’odore che il mangiatore di dolci si stava avvicinando a lui, forse stava sedendo su uno sgabello; protese in direzione di Carlo le mani zuccherose e appiccicaticce e le lasciò pesantemente cadere nelle sue vicinanze.
Un boato fatto da molteplici suoni lo assordò propagandosi nell’aria e terrorizzandolo. Non seppe mai che cosa di preciso era accaduto.
Forse fu per un improvviso movimento causato dallo spavento, forse fu la potenza del suono: a lui sembrò che le mura di un’intera città fossero crollate. Carlo il tarlo era rotolato sulla collina nera vicino a lui. Non bastava: da lì era scivolato sulla piattaforma bianca immediatamente prospiciente, ma non era caduto nell’abisso!