VIAGGIO DI UN TARLO IN UN’OTTAVA. Racconto di Letizia Gariglio (Seconda Parte)
Era nato, finalmente.
Doveva però dire che anche prima lui si percepiva ben vivo, ora tuttavia sentiva di aver preso una nuova forma. Messa fuori la testa dal suo ambiente abituale sentì una sferzata d’aria. Fu tentato di ripararsi nuovamente nel suo vecchio buco, dove era stato così bene e così a lungo. Accidenti, ma era proprio necessario nascere? Uno non può scegliere di starsene dove vuole? Mah.
Ora comunque era nato. A lui lo stato di larva andava a genio, si sentiva a proprio agio in quel lungo tubo dove aveva potuto darsi un gran daffare. Rosicchia di qua, rosicchia di là, aveva la sensazione di aver percorso una lunga lunga strada. A un certo punto però si era sentito tanto strano. Capiva di non essere più una larva, ma di non essere nemmeno qualcos’altro. Stava cambiando forma: non assomigliava più tanto a un verme, molto di più a un insetto con un vestito molto aderente. Fu proprio mentre si trovava in quella condizione che sentì dire, proprio nella sua direzione:
«Venite a vedere, ragazzi, qui c’è una bella pupa!»
Una pupa? Ma come si permettevano di chiamarlo pupa, non vedevano che lui era maschio? Non sapeva come prendere la cosa, quando si era accorto dell’arrivo della madre del ciccione dalle mani zuccherose, che sembrava intenzionata a estrarlo dalla sua galleria, che a lui piacesse o non gli piacesse. Se l’era cavata solo perché lei aveva dovuto rispondere al telefono. Aveva lasciato cadere pesantemente il coperchio del pianoforte e era corsa a prendere la sua telefonata, che si era protratta per un bel po’,così lui l’aveva scampata da quel lungo ago uncinato che lei si era procurata per tirarlo fuori. Malgrado gli mancasse ogni esperienza in merito, l’istinto di sopravvivenza l’aveva avvertito del serio pericolo che stava correndo. Era stato lì che si era accorciato e accartocciato quasi come una pallina, per farsi piccolo piccolo. Ridotto alle dimensioni di una piccola mollica di pane, quanto poteva resistere? Allora si era detto:
«Così non posso continuare, ormai mi hanno scoperto. Se anche io non sono una pupa, se anche si accorgeranno che sono un ragazzo, ho però l’impressione che non mi molleranno tanto facilmente. In questi panni non resisto più, mi stanno stretti. E poi, se cominciano a prendermi per una femmina, ci deve essere qualcosa che non funziona. Che cosa devo dunque fare?», si domandò.
Era in momenti come questi che avrebbe voluto ancora avere sua madre accanto a sé, ma da tempo di lei non c’era più alcuna traccia. «Segui la natura, c’è un tempo per ogni cosa» era stato l’ultimo ammonimento.
Era tormentato, eppure, nonostante tutto, non temeva il corso della natura: un conto era farsi infilzare da un uncino e schiattare adescato dalla madre del ciccione, un conto era affrontare una nuova tappa del suo viaggio. Si diceva che tirare fuori la testa dal buco non doveva necessariamente significare la morte. Perciò smise di fare resistenza, si lasciò andare con uno slancio… e sentì una folata di aria sul capo.
«Mamma, mamma…», mormorò fra sé. Un pulviscolo di luce l’avvolse, come in un sogno, mentre la sua splendida mamma, in veste di coleottero dorato, si strinse vicino a lui, mormorandogli:
«Stai quieto, piccolo mio, io sono vicino a te. Non sai che ciò che per la pupa è la fine del mondo, tutto il mondo chiamerà tarlo?»
Gli erano sembrate delle parole un po’ oscure, ma in quel momento non aveva potuto farsi tante domande. E poi, era così felice che il sogno della mamma l’avesse aiutato in un momento così difficile. Aveva teso i suoi muscoli, distribuiti in tutta la sua lunghezza di oltre un centimetro e, mostrando una forma atletica che la tuta aderente precedente non lasciava intravedere, si era adoperato in una serie di contorcimenti, allungamenti, espansioni: si era trovato fuori dalla tuta, improvvisamente dotato di zampe, di testa e occhi. Non aveva più nulla dell’hot dog che era stato.
Preso dall’entusiasmo compì una serie di giravolte e di capriole su se stesso, dando prova di una forma fisica invidiabile, finché si trovò all’improvviso nel bel mezzo di una fila di piattaforme, uguali una all’altra, che si allungavano in una serie che a lui parve infinita. Quante piattaforme si susseguissero, una dopo l’altra, non poteva dirlo: erano troppe per contarle. Ce n’erano sette, poi altre sette, poi ancora sette… Oh, ma per quante volte? Almeno per sette volte, e forse non era ancora finita lì. Dovette rinunciare al conteggio. La testa gli girava per tutto quel contare. Cercò di tranquillizzarsi. Doveva rendersi conto che adesso, dopotutto, quella era la sua casa. Fu assalito da una preoccupazione:
«Queste piattaforme sono tutte uguali! Se io mi sposterò da qui, per esplorare il mondo, come farò a riconoscere la piattaforma su cui mi trovo adesso? Riuscirò a tornare indietro? Riuscirò a riconoscere la mia casa?»
Come gli fosse venuta l’idea di poter esplorare il mondo non lo sapeva neanche lui, ma adesso che l’aveva formulata nella sua mente pensò che era davvero un’idea geniale. Lo prese un desiderio molto forte di conoscere, di percorrere su e giù tutto il mondo: almeno tutto il suo mondo. Cominciò a guardarsi intorno sulla sua piattaforma: era forse una boa? Qualcosa gli suggeriva che mancasse qualche dettaglio per farne una boa: una specie di mare. Dovette così escludere l’idea di esplorazioni per mare.
«Credo che per ora dovrò fermarmi sulla terra», disse tra sé. «Questa sarà la mia patria», si disse, «la chiamerò DO»
Cominciò a voltarsi verso sinistra, e fece due passetti, poi tornò verso destra, dove si mosse strisciando per pochi millimetri; fare la retromarcia risultava più macchinoso; procedere in avanti era un’azione molto più sciolta: si sarebbe detto naturale. Attento a applicare i precetti che sua mamma gli aveva lasciato decise di preferire la deambulazione in quella direzione, senza escludere le altre, soprattutto in caso di necessità. Per il resto, avrebbe assecondato la natura.