PAROLE. VARIAZIONI (20, 21, 22) di Grazia Valente
20. L’usura delle parole
Le parole vivono di vita propria? Hanno una durata e una fine, proprio come noi? Esistono parole che vivono più a lungo di altre? Vi sono parole che attraversano indenni i periodi, le epoche, che sembrerebbero non perire mai? Parole particolarmente resistenti, parole che non subiscono l’usura del tempo, parole che si comportano come se il passaggio del tempo non le riguardasse in alcun modo? Eppure, anche queste parole che paiono essere eterne subiscono un logoramento, una erosione dovuta all’uso troppo prolungato, all’abuso che ne facciamo fino a farle diventare talmente logore da far loro perdere lucentezza e reale significato.
Esiste una parola tra tutte che pronunciamo in modo esagerato e sproporzionato: la parola Amore. Questa bellissima parola, il cui significato profondo richiama un sentimento nobile, intriso di passione e di altruistico abbandono, ebbene questa parola è talmente abusata da essere diventata uno stereotipo, quasi un intercalare privo di senso che non sia quello di rabbonire l’altro, di accattivarsi la sua benevolenza. Tutti, in qualche modo, abbiamo conosciuto questa parola rivolta a noi, pronunciata in molte occasioni, una parola che ritroviamo nei dialoghi con i nostri figli, con il partner, perfino con persone appena conosciute che cercano di stabilire con noi un rapporto di rassicurante confidenza. L’usura delle parole è inevitabile, ma l’usura di questa parola in particolare ci rattrista e offende i nostri sentimenti. E’ una parola che, proprio per il suo significato così profondo, così coinvolgente emotivamente, andrebbe usata con grande parsimonia, in modo da farla risplendere come una pietra preziosa che ci viene regalata a testimoniare un sentimento genuino e sincero.
Eppure, paradossalmente, questa parola è stata rimossa là dove invece andrebbe esaltata ed è quando ci si riferisce all’atto sessuale: fare l’amore ci è sempre sembrata una bellissima locuzione (sì, siamo inguaribilmente sentimentali), mentre in questo nostro tempo impregnato di concretezza oggi viene usata l’espressione fare sesso, un po’ come fare jogging. Mentre noi inorridiamo interiormente, ci viene spontaneo augurare, a tutti coloro che fanno sesso, che almeno il risultato sia soddisfacente e che non pensino, alla fine, che sarebbe stato meglio fare jogging.
21. Parole incorniciate
Esistono parole speciali, che vorremmo conservare per sempre, così preziose da metterle in cornice, per ricordarle in ogni momento? Pensiamo che queste parole esistano e che ognuno di noi ne abbia fatto esperienza, siano esse parole d’amore, mai dimenticate, oppure parole di odio, di umiliazione, parole che bruciano ancora mentre le ricordiamo. Se decidiamo di metterle in cornice, queste parole che bruciano, è perché vogliamo farne tesoro in quanto ci ricordano i nostri errori, le nostre debolezze.
Insieme a queste parole piene di negatività ci sono però anche parole di saggezza, di fraterna amorevolezza, non necessariamente pronunciate da chi ci è vicino o ci è stato vicino in passato. Ci riferiamo alle parole dei Grandi della letteratura e della filosofia, i pensatori del passato che ci hanno lasciato il patrimonio inestimabile del loro pensiero affinché ne facciamo tesoro. Quando leggiamo una delle loro massime, così attuali dal momento che si riferiscono all’animo umano che, per fortuna, è ancora lo stesso da secoli, allora ci commuoviamo e avvertiamo un’intima fratellanza con loro. Quando esiste un loro ritratto, un’immagine che ce li consegna anche fisicamente, notiamo come essi appaiano persone assolutamente normali, dai loro visi non traspare affatto il genio che alberga nelle loro opere. Sono immagini statiche, a volte immortalate in pose particolarmente pensose e solenni, studiate appositamente dal ritrattista per suscitare in chi li guarda deferente ammirazione.
Soltanto se osserviamo attentamente i loro volti ci sembra di cogliere negli sguardi, nella piega delle labbra, un lampo d’ironia per il fatto di trovarsi lì in quel preciso istante, consegnati ai posteri fino alla fine dei secoli.
22. Parole travasate, parole travisate
Le parole che diciamo, che scriviamo, quelle con cui esprimiamo i nostri pensieri, vengono recepite in modo corretto, nel loro giusto significato? Ciò accade molto raramente. E non esiste frustrazione maggiore, per chi scrive con l’ambizione di fare letteratura, che vedere stravolto il proprio pensiero. I sentimenti che si provano sono all’incirca questi: non sono capace di scrivere; non raggiungo quell’esattezza quasi scientifica che uno scrittore dovrebbe avere come base minima della propria scrittura; sono diventato oscuro, io che credevo di essere limpido come un ruscello di montagna; sono diventato ambiguo senza rendermene conto; non ho più la padronanza del linguaggio necessaria a chi si autoconsidera uno scrittore, sia pure uno scrittore minore. Dilaniati da questi interrogativi proviamo a passare al microscopio quello che abbiamo scritto, cercando i passaggi che hanno indotto il lettore a equivocare. E, frustrazione delle frustrazioni, non riusciamo a trovarli. Tutto appare molto chiaro, così come noi lo abbiamo pensato, il nostro pensiero non ha subito maltrattamenti nel passaggio dalla mente alla parola scritta. E allora? Semplicemente, oggi la conoscenza della nostra lingua è diventata un insieme di approssimazioni e, soprattutto, oggettivamente impossibilitata a comunicare alcunché non sia stato preventivamente formattato in stile televisivo e/o gergale. Ci ricordano gli psicoterapeuti che la lettura è un processo complesso che include una combinazione di abilità percettive, psicolinguistiche e cognitive.
Dobbiamo forse affermare che sarebbe opportuno, per chi voglia dirsi scrittore, banalizzare il più possibile e attingere a piene mani agli stereotipi? Sono forse questi gli ingredienti necessari per diventare uno scrittore di successo, sia pure a tempo limitato?
Noterella a margine. Secondo uno studio di Save the children la metà dei quindicenni italiani non capisce quello che legge.
Ma occorre fare un’altra considerazione.
Quando ci accingiamo a scrivere, non soltanto per il nostro piacere ma anche pensando ai possibili lettori, non esprimiamo il nostro pensiero fino in fondo ma lasciamo generalmente una parte del discorso sottintesa, affidata all’intuito di chi legge. E questo vale in particolar modo per la poesia. Inoltre, ricordiamoci sempre che ogni parola, ogni sostantivo, ogni aggettivo, ogni verbo subiscono nel passaggio da noi all’altro una sorta di traduzione dal nostro mondo a quello dell’altro. Quello che avviene è, in un certo senso, un travaso da un recipiente (il nostro cervello) a quello di un altro. Facciamo un esempio: se scriviamo: andiamo a casa, la parola casa suscita immagini differenti tra noi che abbiamo in mente la nostra casa e chi legge che ha in mente la propria, (sempre ammesso che abbia una casa!). Senza contare poi che per qualcuno il fatto di andare a casa non appare per nulla piacevole, per molte ragioni. quindi inconsciamente sviluppa una sensazione di contrarietà che si riverbera sul modo con il quale recepisce la nostra affermazione. A questo punto è evidente come sia già avvenuta una prima alterazione del pensiero di chi scrive o, se si preferisce, una sua prima interpretazione soggettiva. E questo vale per ogni parola, ogni concetto che passa da noi all’altro. Quello che trasmettiamo scrivendo è il nostro universo mentale composto di esperienze, di letture, di stati emotivi. Un bagaglio enorme che riversiamo sulla pagina. Come possiamo immaginare che il nostro pensiero, composto di una miriade di implicazioni, riesca a trasparire dalle nostre parole nella sua interezza? Tutto è approssimazione, attenuazione se non addirittura alterazione. Possiamo già considerare un buon risultato se quello che abbiamo scritto arriva al lettore rispettando il nostro pensiero al cinquanta per cento.