CARTA PENNA E CALAMAIO. E IO? racconto di Letizia Gariglio tratto da “La felicità è momentaneamente occupata”, Nuova Ipsa, Palermo, 2016
Credo che voi riconosciate in me la forza dei miei avi. Essi hanno portata alta la bandiera della nostra genìa: anzi, l’hanno portata come una bandiera. Fra i nostri sostenitori c’era chi lasciava agitarsi nel vento le nostre remiganti; leggermente inclinate all’indietro, ornavano i cappelli eroici di montanari spavaldi: di corvo, nere; d’aquila, marroni; e bianche come s’addice a chi si dispone al comando su tutti.
Eppure, nel silenzio, senza cori di voci incitanti, c’era chi, come me, si preoccupava di procurare alla propria discendenza l’eredità dei valori che sanno fermarsi nel tempo, c’era chi sapeva confermarsi in segni durevoli, asseverarsi in astrazioni, aggraziate e sinuose, che davano orma e sostanza al sapere.
Quali eminenze grigie, io e le mie compagne abbiamo rinunciato alla brillantezza del successo d’azione; agli sgargianti abiti rossi cardinalizi abbiamo preferito il silente grigio lavorìo che può apparire modesto, e solo in seguito rivela il vero peso del proprio potere, che scaturisce dalla trama tessuta nell’ombra. Dapprima, per sostituire il calamo venimmo da Polonia, Pomerania, Lituania; piene e delicate nel tatto, fummo ingegnose: non vi è altra parola per narrare di noi. Ma eravamo solo in cinque su ciascuna ala; e occorrevano intagliatori d’eccellenza, e lungo invecchiamento per essere pronte, e sabbia e cenere, e tanti, tanti sacrifici di vite: a migliaia giungevamo sugli scrittoi.
Ci demmo allora un’anima che sostituisse alla flessibilità animale del nostro essere un oggetto metallico: nuovi strumenti divennero via via nostri fratelli, o fratellastri: fusi, temprati, laminati artigianalmente nella nuova sostanza potemmo scatenare le fantasia e accontentare ogni mano diversa.
Fummo creati, nella nostra forma minore, quella del pennino, in diecimila varianti. Prendemmo la forma di torre, manina, dito, con lo spirito che s’addice ai cadetti ci adoperammo per combattere le malattie professionali (guai al crampo dello scrittore!), fummo forgiate in acciaio, rame, oro e argento, con steli o cannucce, e persino con pietre preziose.
Ce la mettemmo davvero tutta. Perché in quella forma scomparimmo dal mondo all’improvviso? Ce l’avevano con noi perché lasciavamo macchie. Ingrati! In quattro e quattr’otto i pennini, fratelli minori, sparirono dalla circolazione.
Ma in qualche modo la nostra specie sopravvisse. Avevano inventato per noi nuove forme, assai più democratiche: con una piccola pallina metallica sulla punta eravamo ormai irriconoscibili. Smisero di chiamarci semplicemente penne e divenimmo biro.
Io in quell’aspetto non mi riconosco, non mi piaccio, ma è in questo modo che oggi parlano di noi nel mondo. Personalmente io resto legata al mio fulgido passato, vivo di ricordi, soffro in silenzio, ma non demordo, e pazientemente attendo la piena rinascita.
Di tanto in tanto qualcuno mi fornisce l’illusione di poter tornare alla mia anima più antica. Questa pasticciona che ho davanti, per esempio, di tanto in tanto abbandona, chissà se per noia, quella sua scatoletta che lei chiama pc e con un sorriso radioso prende dalla scrivania me, che chiama “la mia stilografica a punta mozza”, con quelle sue mani goffe mi propina un’iniezione di ciò che lei nomina come “il mio inchiostro preferito”, mi pasticcia con le sue mani imbrattate e beata mi guarda con la sua faccia ebete, osservando ciò che io produco, nel suo colore preferito: lavanda.
Si chiede mai quale sia il mio?