CRUCCIO DI UN PRETINO di P. P. Roe (Pietro Paolo Capriolo)
Questa narrazione ha un po’ un persistente ed aromatico sentore mnemonico di vino.
Ricordo l’annuale giornata primaverile dedicata dal mio papà all’imbottigliamento. Io gli fungevo da assistente nel travasare dalle damigiane il nettare di Bacco, nello stendere sui tappi di sughero di prima qualità un leggero velo di olio (di vaselina se acquistato in farmacia; altrimenti detto “per uso enologico” se proveniente da negozio per appassionati fai da te), nel sistemarli nell’apposito marchingegno che li introduce a forza nel collo delle bottiglie, nell’appiccicare su di queste le etichette, ecc…
Per lui, quella era una data particolare e, se non coincideva con la pasquetta perché già dedicata ad altro impegno, necessitava di un giorno di ferie a richiesta. Non poteva essere fissa, perché legata alla Pasqua cristiana che è determinata dal ciclo lunare.
In cantina ho appreso che ogni fase di luna ricorre tredici volte in un anno di dodici mesi e che il plenilunio dopo l’equinozio di primavera (il 21 marzo per convenzione, ed infatti proprio quest’anno 2023 accade il giorno 20) può capitare in aprile, donde il popolare ossimoro astronomico luna di marzo in aprile, cosa cui stanno molto attenti i contadini, gli ortolani, i taglialegna…
Il vino, diceva a ragione e con amicale esperienza condivisa, va imbottigliato nel periodo di luna vecchia, cioè nell’ultimo quarto e mi ripeteva il detto proverbiale «Gobba a ponente: luna crescente. Gobba a levante: luna calante» per individuarne nel cielo la giusta fase.
Appassionato sì, ma morigerato bevitore o, come s’usa dire adesso, consapevole.
Per i giorni di grande festa c’era il Nebbiolo che andavamo ad acquistare con l’auto familiare nella zona tipica del Barolo. Per gli altri giorni c’era il Barbera tagliato con una percentuale di Freisa per renderlo più abboccato. Tre damigiane da trentasei litri ciascuna sistemate sul sedile posteriore.
Il fornitore era il prevosto di uno dei rinomati paesi il quale aveva un beneficio parrocchiale con vigne curate da un mezzadro e che ci praticava un prezzo tutt’altro che stracciato, ma non inarrivabile.
Papà sosteneva che per il re dei vini, il vino dei re, valesse la pena andare fin là ad acquistarlo sfuso, come Nebbiolo per il dazio, ma in realtà noi eravamo consapevoli di come in una di quelle damigiane viaggiasse in incognito dell’autentico Barolo che sarebbe stato poi imbottigliato fuori della sua zona tipica.
Ma il cruccio cui si fa cenno nel titolo non riguarda questo anziano sacerdote, tuttavia al life motive del vino si ricollega per l’affabile confidenza ricevuta da un altro suo confratello, piccolissimo produttore. S’erano incontrati sul sagrato della chiesa mio papà e quest’altro parroco di collina che, quando ancora non c’era l’ente del sostentamento del clero, con le rendite della sua piccola parrocchia non se la passava troppo bene ed aveva accettato di scendere settimanalmente nella nostra cittadina a tenere lezioni di religione in una scuola media.
Non aveva una grande esperienza pedagogico-didattica, ma s’era subito conquistato l’attenzione delle scolaresche con un espediente particolare. Egli era naturalmente dotato della capacità di raffigurare le persone e con tecnica da autodidatta era in grado, a richiesta del soggetto, di eseguire un ritratto caricaturale o altamente fedele. Figlio di povera gente, non aveva potuto dedicarsi alla pittura e pure sua sorella era stata costretta ad emigrare in Francia a praticare l’arte, quella culinaria però, divenendo col tempo Cordon bleu. Aveva già ritratto i volti di tutti gli abitanti del paesello e così non gli parve vero di avere a disposizione così tanti modelli giovanili. Alla prima lezione schizzò il faccino di ognuno degli alunni, poi fece circolare il foglio invitandoli a riconoscersi, sottoponendo il nome alla figurina identificativa. Gli fu facile stabilire con loro l’accordo che se fossero stati tranquilli, attenti e quasi immobili, avrebbe eseguito a ciascuno il ritratto a carboncino su blocco da disegno, mentre egli spiegava ed interrogava. Eh, l’arte ha il suo costo ed i ragazzi accettarono la proposta in cambio di quel personalissimo regalo.
Ma perché ho fatto questa digressione? Per inquadrare il personaggio che al papà rivelò di condurre personalmente quei pochi filari di vigna poco sopra l’orto, di vendemmiare egli stesso e ricavarne quel tanto di vino genuino per il proprio consumo e di un paio di compratori storici ereditati dal parroco di prima. No, non ne aveva da vendergli e poi la vigna era situata in una zona tutt’altro che rinomata ed ospitava piante di diverso lignaggio che altri avevano messo a dimora, dando un prodotto ibrido di difficile definizione. Accettò però la vantaggiosa proposta di scambio alla pari (nel senso di una bottiglia in cambio di un’altra, indipendentemente dal contenuto) e l’invito a venire una sera a casa nostra.
Si presentò con una bottiglia leggermente ancora impolverata (porta bene, dicono gli intenditori) con un cartoncino appeso con un filo e riportante l’annata scritta a mano, forse della sua miglior produzione. La raccomandazione di lasciare riposare il vino dopo il trasporto prima della degustazione non era necessaria e sembrava voler mascherare il timore del confronto immediato.
Non con l’intento di stravincere, ma per calda accoglienza ospitale, papà stappò una bottiglia del suo Nebbiolo/Barolo, nientemeno che del 1964 (annata favolosa!) e gli diede in cambio del Barbera di cui sopra.
Dall’apprezzamento del rosso contenuto del bicchiere, la conversazione si estese ad altri argomenti: l’esposizione al sole della sua vigna, la popolazione del paesello, da quanti anni fosse parroco là, dove fosse stato prima…
Bonariamente, don Francesco accontentava la sua curiosità, ma si sa che il Barolo è soprattutto un vino corposo da pasto per accompagnare gli arrosti e sgrassare la bocca: «Un leone ammansito!», come al solito non mancò di sentenziare papà, attribuendo l’esclamazione a W. Churchill. Non proprio da meditazione né da conversazione e, benché per ognuno si fosse nel dopo cena, quel vino al reverendo sciolse la lingua e ci raccontò una sua esperienza da giovanissimo sacerdote. Userò, per quanto possibile ricordare le sue parole o, almeno l’espressione.
«Un giorno ho ricevuto una convocazione scritta: il cardinale Fossati voleva incontrarmi di persona. Ho escluso subito che fosse per affidarmi una parrocchia, perché ancora troppo giovane, ordinato da meno di un anno. Ho passato una settimana a chiedermi cosa potessi aver combinato e non mi veniva in mente niente. Mi sentivo la coscienza a posto, ma ero preoccupato, eccome! Arriva il giorno stabilito e con la lettera in mano, mi presento in arcivescovado ad un addetto della segreteria. Questi mi guarda prima stupito, poi con aria severa, ma così severa come a predirmi chissà quale lavata di capo! Bussa alla porta, attende che da dentro arrivi il permesso, apre e, quasi dovesse spingere una persona recalcitrante, mi introduce nello studio del cardinale. Avanzo titubante, mi fermo alla scrivania e, stropicciando il basco con le dita, mi presento. Quello posa la penna, si toglie gli occhiali da lettura e mi fissa tranquillamente in silenzio. Mi sento già meglio, ma poi quando prende a parlare non più».
‒Ah! Sei tu quel don Francesco F. di cui m’hanno parlato. Volevo sapere se vai a confessare nella chiesa di san […] tutti i sabati al pomeriggio.
‒ Sì, eminenza. Vado ad aiutare il vecchio parroco che conosco da anni.
‒ E dimmi: confessi anche le suore?
‒ Se capita, perché no? Mi metto a disposizione per due ore e chi arriva, arriva.
‒ Beh, sappi che la superiora del convento […] è venuta a lamentarsi. Sì, perché tu non ti limiti ad ascoltare quello che hanno da dirti, ma fai delle domande, specialmente sulla loro vita comunitaria.
‒ Ma quali peccati possono aver fatto, alla loro età? Al massimo hanno mancanze di carità fra di loro, maldicenze… E poi, è così che mi è stato insegnato. Ho da poco superato l’esame di morale. È forse cambiato qualcosa?
‒ No, no. Ora ascolta il tuo arcivescovo che la sa più lunga di te. Continua come già stai facendo e, per quella lamentela… ricordati che le monache hanno la testa fasciata! Puoi andare, hai la mia benedizione.
Dando fondo all’ultimo sorso di Barolo nel bicchiere, don Francesco ci confidò anche:
«Qualcosa devo aver farfugliato, poi avvicinandomi alla porta ho apprezzato in pieno la battuta del cardinale. Ancora con il sorriso sulle labbra, apro e passo oltre. Mi si fa incontro quel sottosegretario e, vedendomi tutto allegro, si avvicina cercando di capire come si fosse svolto il colloquio là dentro. Si fa benevolo adesso, quasi servizievole. Mi precede, aprendomi perfino l’uscio sul corridoio. Si vede che muore dalla voglia di sapere. Io allora? Saluto, esco e non gli dico un bel niente!»