L’ALBERO DEI BUONI FRUTTI, 2a PARTE: FINE DELL’ETÀ DELL’ORO di Domenico Diaferia
Con le nuove regole che s’era data, la comunità continuava la sua vita tranquilla ma meno libera e allegra. Occhiuti guardiani, cresciuti di numero e potere, sorvegliavano di continuo ogni angolo del villaggio. A gentilezza e ospitalità era subentrata una diffusa diffidenza. Le danze in comune si facevano solo più nelle notti di luna piena.
La sazietà giornaliera era comunque assicurata e questo a loro bastava. Le mogli erano sempre più confinate nelle capanne e gli uomini, annoiati, avevano meno voglia di chiacchierare tra loro.
Arrivò un giorno in cui la loro quieta esistenza era destinata a mutare completamente.
L’annunciò il suono cupo di corni e di tamburi, poi con grande trambusto fece ingresso nel villaggio una banda di strani uomini. Quel fracasso fece accorrere gli abitanti del villaggio che si radunarono nel grande piazzale dove già se ne stavano gli stranieri. A quella vista si spaventarono e se ne stavano stretti l’uno all’altro. I due gruppi si guardavano incuriositi, si annusavano. Quelli del villaggio tentavano di capire le loro intenzioni, gli altri vociando rumorosamente in uno strano linguaggio si guardavano intorno con la curiosità non di chi vuole sapere, ma di chi cerca una preda.
Come strani animali apparivano ai timorosi quegli uomini coperti di pelle e ornamenti di ossi, armati di asce e lance fatte con legno e selci scheggiate e puntute.
Si fece avanti quello che doveva essere il loro capo a giudicare dai maggiori ornamenti e dal viso dipinto di strani disegni.
Di fronte a lui si levò il giovane capo del villaggio, che ne aveva preso la guida dopo la morte dell’anziano padre. Subito disse: «Chi siete? Non sapevamo che ci fossero altri uomini che vivono in questi territori. Se venite in pace siete i benvenuti e siamo contenti di parlare con voi di tante cose che ignoravamo, e così credo sia per voi».
Il loro capo, aprendosi la pelliccia, disse: «Avevo dimenticato questo bel tepore… Allora, fratello, non mi riconosci? È passato molto tempo da quando ho voluto andarmene alla ventura e voi mi avete umiliato dandomi due miserabili frutti. Tu eri ancora un ragazzo. Come vedete sono sopravvissuto. Ma non vedo mio padre. Se hai preso il suo posto vuol dire che è morto. Se ne stia in pace lui e la sua saggezza…»
«Perché hai tanta amarezza nel ricordare nostro padre? Lo sai quanto ci volesse bene e quante cose ci ha insegnato».
«A te voleva bene! Con me era severo. Tu eri il preferito, il più intelligente, obbediente, volenteroso, il pupillo da difendere».
«Da difendere da te, sempre prepotente e dispettoso. Volevi sempre costringermi a fare la lotta perché sapevi che eri più forte. E nostra madre non prendeva sempre le tue difese anche se avevi torto, sempre comprensiva?»
«Sì, ma a te dava i bacetti…»
Iniziò a quel punto un brontolio nel gruppo degli impellicciati.
«Qui va per le lunghe…»
«Le solite storie di famiglia».
«Comincia a fare caldo. Sediamoci in terra e togliamoci questi giacconi».
Apparve così a tutti lo spettacolo di quei petti villosi, con segni evidenti di cicatrici e tatuaggi. Il sudore emanava un odore intenso, ferino. Essi sbavavano estasiati dal fascino dei corpi nudi e chiari delle donne indigene assaporando il profumo delle ghirlande di cui erano adornate. Lanciavano loro occhiate ammiccanti con gesti osceni. Le donne terrorizzate stringevano i figli a sé e si nascondevano dietro gli uomini. Questi notavano tutto ciò e sentivano disagio per la loro nudità, non tanto perché la considerassero disdicevole e poco ospitale per i nuovi venuti, ma perché si sentivano totalmente impotenti. Altri pregustavano quell’abbondanza di frutti che pendeva dall’alto sopra di loro.
Si levò la voce di uno dei guerrieri che già fu rivale al capo del comando: «Ehi Ka» (questo era il suo nome) «non siamo venuti qui per ascoltare le vostre beghe di famiglia!…»
Il capo gli rispose secco: «Taci. Ogni cosa a suo tempo. Sto parlando dopo tanti anni con mio fratello. E forse questa sarà l’ultima volta. Lui vuole sapere: se parlerò di me parlerò soprattutto di voi. Non siete orgogliosi di far conoscere a costoro il valore del nostro popolo?»
Si levò un forte: «Sì, parla!» E lui iniziò: «È grazie a questi uomini che mi sono salvato, mentre stavo morendo ferito e incapace di muovermi tra le rocce della montagna. Volevo vedere oltre. Ho camminato per giorni, ho attraversato fiumi e boschi, mi sono cibato come potevo e quando potevo. Sono fuggito e ho dovuto affrontare animali che non conoscevo, feroci e affamati come me. Poi mi sono trovato davanti a una grande montagna. Mi sono detto: andiamo oltre! Continuavo a salire, poi, sfinito, ho messo un piede in fallo e sono precipitato. Loro mi hanno trovato perché le montagne sono la loro casa. In cima c’è un altipiano che rende la vita più confortevole. Ma non certo come la vostra qui. Il freddo lassù è pungente, quasi in ogni stagione. Le pelli che ci coprono sono di animali che abbiamo ucciso per poterci sfamare, affrontati con molta forza e coraggio. All’inizio mi usarono come servo. Poi, col tempo, mostrai di avere una particolare abilità nella caccia. Avevo osservato il comportamento dei lupi: essi accerchiano la preda quando è isolata costringendola a separarsi dal gruppo, allora l’attaccano. Insegnai loro altre cose, come un linguaggio più chiaro con parole precise, anziché grugniti animaleschi. Alcuni impararono la nostra lingua. Ma sono maggiori le cose che ho imparato da loro. Solo chi è più forte e coraggioso sopravvive. Gli altri sono destinati a soccombere. É la legge della natura.
Quando il loro vecchio capo morì fui scelto tra quelli destinati al comando. Dovetti affrontare molte prove e vinsi non tanto per la forza ma per intelligenza e audacia. È vero amico mio?» disse rivolgendosi al vecchio rivale.
«Bene, ora ci conoscete. Di voi ne sanno abbastanza perché gliene ho parlato a lungo ed è questo il motivo per cui siamo qui. Per quanto siate ospitali, voi non avete altro da offrirci che ghirlande di fiori. Eppure avete ben altre ricchezze…»
Fece un segnale convenuto: a quel punto alcuni si alzarono e camminando con calma si posizionarono intorno allo spiazzo.
Arrivò improvvisamente un uomo del villaggio con una grossa fascina di ramaglie dicendo: «Ecco la legna per il grande falò di questa sera!» Lo posò di fianco ai suoi amici dicendo sottovoce: «Dentro ci sono dei robusti bastoni. Passaparola». Quell’uomo, rimasto lontano dal gruppo, di nascosto aveva visto, udito e capito tutto.
Ka, a cui nulla sfuggiva, riprese il suo discorso: «Che volete, amici… Noi siamo carnivori, ma siamo stufi di mangiare carne di animali cruda o bruciacchiata. Ci è venuta voglia di tanta frutta e anche di bella carne fresca!…»
Non aveva neppure avuto il tempo di dire: «Al mio comando scatenate…» che una parte del branco si era lanciata a saccheggiare i frutti arrampicandosi sull’albero e raccogliendoli in ceste e bisacce. Altri si misero a rincorrere le donne che erano fuggite verso il villaggio, mentre gli uomini armatisi di quei pochi bastoni cercarono di rompere l’accerchiando e difendere ciò che ormai era indifendibile.
Il giovane capo del villaggio andò col suo bastone incontro al fratello dicendogli con rabbia: «È dunque questo tutto il tuo coraggio? Quello di un lupo che massacra degli innocenti! Che tu sia maledetto! E che i nostri genitori ti appaiano in sogno per sbranarti ogni notte per l’eternità».
Quindi levò il suo bastone contro di lui rimasto immobile. Furono le sue due guardie del corpo a scagliarsi contro il giovane: una lo colpì in pieno petto, lui si piegò e l’altra gli fracassò il cranio con la sua ascia. Erano due donne, le uniche guerriere del gruppo e sue uniche amanti nel letto.
L’uomo guardò il corpo del fratello che giaceva a terra esanime. Disse: «A questi uomini ho promesso un regno, non posso fermarmi ora: se non lo faccio loro uccideranno me». E poi, a voce alta, perché tutti udissero: «I grandi regni nascono dal sangue, più prezioso se è di famiglia!»
Nello scompiglio un fuoco divampò in una capanna iniziando a incendiare quelle vicine. Allora lui gridò come una belva infuriata: «Date fuoco a tutto! Che non resti nulla di questo villaggio e le fiamme si vedano lontano, così capiranno che siamo passati noi! Tutto ciò che vediamo d’ora in poi sarà terra di conquista. Portate via frutti e donne, il resto sia sangue e cenere. Ora scendiamo a valle! Là ci sono villaggi che ci aspettano…»
Le donne del villaggio furono legate e trascinate via dal loro piccolo paradiso. Le loro donne scendevano cariche di ceste e bisacce colme di frutti.