EUREKA! TRA PEDILUVI E INSOLITI NATANTI di Pietro Paolo Capriolo (P. P. Roe)
Il classico lancio del sasso nello stagno produce una bella serie di anelli concentrici che, con effetto da micro tsunami sul pelo dell’acqua, allontanandosi dal punto dell’impatto, vanno scomparendo poco più in là. Chi può dirsi immune dall’aver compiuto almeno qualche volta questo innocente gesto, causando la fine miseranda del sasso, cioè l’ineluttabile suo affondamento? Questa morte lapidea non è da tutti però. Ricordate il sassolino grigio e poroso che si ritrovava nelle tasche dei jeans per poterli a piacere invecchiare strofinandocelo sopra in punti strategici? Ora la moda li impone addirittura lacerati! Quella forse era per noi cittadini padani la prima conoscenza della pietra pomice così tout court, cioè escludendone la polvere nei detersivi e dentifrici. Di questi sassolini facevano incetta le nonne, per raschiarsi i duroni e la pelle secca sui talloni, prima che in farmacia comparissero apposite tavolette adatte allo scopo.
Ma perché mi viene il ghiribizzo di intrattenervi sui sassi che affondano o meno?
Prima che le cronache catastrofiche di metà gennaio annunciassero la devastante eruzione di un vulcano sommerso nella Polinesia, con annessi e connessi di tsunami, oscuramento del cielo per le polveri scagliate in alto, ed interruzione delle comunicazioni e della navigazione aerea e marittima, già intendevo dare la notizia che nell’oceano Pacifico nell’agosto 2021 era emersa “un’isola” letteralmente galleggiante nei pressi dell’esotico Regno di Tonga ora più che mai alla ribalta. Quella che le correnti stanno facendo flottare verso l’Australia non è propriamente una nuova terra emersa in un blocco unico ed ancorata al fondo marino, ma è formata da una miriade di conglomerati di pomice eruttati dal vulcano subacqueo.
È una curiosità in sé, anche perché permette alle imbarcazioni a vela di solcarla letteralmente, quasi fossero navi rompighiaccio alle prese con una grigia banchisa tutta in movimento che si estende per 150 Km2, pari a 20 000 campi di calcio.
Cos’hanno queste pietre in più (o in meno?) per poter galleggiare?
Quando un vulcano ha eruzioni di tipo esplosivo come il nostro Stromboli, il magma contiene molto gas e vapore acqueo che, al rapido raffreddamento della materia rocciosa, resta intrappolata in bolle. È vero che all’esterno la pietra appare tutta bucherellata per le sferette che si sono rotte, ma all’interno ve ne sono ancora tantissime, anche minute, che dilatano il volume che il peso-massa della roccia prevedrebbe, tanto da permetterle di galleggiare. È in sostanza più grande di quello che dovrebbe essere. Volendo verificare, si pesa un sassolino e dopo averlo sminuzzato finemente fino a ridurlo a polverina, lo si rimette sulla bilancia, badando a compensare eventuali briciole andate perdute durante la frantumazione. Quando il peso è lo stesso di prima, già subito si nota un ingombro molto minore e, se si mette in acqua, la sabbiolina affonda regolarmente, come già di poteva evincere dai depositi sul fondo delle bacinelle usate dalle nonne per il pediluvio esfoliativo.
I costituenti dell’isola galleggiante, dopo innumerevoli urti fra di loro, prima smusseranno le asperità, poi continueranno a perdere materiale sabbioso e, se approderanno sulla battigia di una spiaggia, la risacca provvederà a consumarli come fa con le conchiglie, i coralli, il materiale laterizio ed i pezzi di vetro levigato che finivano nelle nostre infantili collezioni vacanziere.
Quello della pietra pomice è un bell’esempio di galleggiamento, perché il silicio e l’alluminio che ne sono i principali costituenti non si infracidiscono come il legno dei galeoni spagnoli e delle navi onerarie romane che, una volta affondato e rimasto sommerso dal carico, non riemerge a pezzi, perché l’acqua è penetrata nei pori dove un tempo la linfa è evaporata con la stagionatura.
Chi ha imparato a nuotare ricorda la principale raccomandazione dell’istruttore, cioè di non irrigidirsi, di non contrarre i muscoli per la paura, ma al contrario distendersi il più possibile, per non parlare poi della sorprendente sensazione della posizione “a morto”, quando l’acqua lambisce la testa fino alle orecchie e si galleggia senza sforzo alcuno.
Proprio in un rilassante passatempo idrico, il genio di Siracusa scoprì il famoso principio che porta il nome di spinta di Archimede. Ne ho già accennato nell’articolo sul numero n. 42 di dicembre 2021 e mi pare giunto il momento di ricordarlo, però non in bruta enunciazione, ma piuttosto inserito in un contesto di piacevole discettazione come si è venuti finora parlando di pomice. Molti di coloro che asseriscono di conoscerlo lo recitano con qualche imperfezione, soprattutto riferita al mezzo in cui si esplica. Non per vanto, ma ricordo l’ardire di aver ripreso e corretto (bonariamente ed in privato) una mia preside che lo aveva pubblicamente ed impropriamente citato. Mi auspico che il corpo docente abbia soltanto avuto remore di educato rispetto (io nell’imminenza della pensione non temevo ripercussioni!) e non di generale ignoranza, avendo tutti lasciato correre l’errore. Ancora un attimo: mi piace far notare l’uso del tempo presente indicativo nell’enunciato, perché è valido sotto ogni latitudine ed in ogni tempo, così come sono formulati i teoremi (ricorderete tutti almeno quello di Pitagora a proposito dei quadrati costruiti sui cateti e sull’ipotenusa del triangolo rettangolo).
Un corpo, immerso in un fluido, riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso del volume del fluido spostato.
Perché ho scritto fluido e non semplicemente liquido?
Definire la situazione molto fluida al posto di dire d’avere l’acqua alla gola è soltanto una battuta spiritosa, magari da parte di chi non è proprio in pericolo. Qui per fluido si intende sia il liquido (di solito acqua) che l’atmosfera.
Una facile dimostrazione domestica sull’importanza della forma dell’oggetto in questione consiste nell’appallottolare della plastilina formando una sfera di circa cinque centimetri di diametro e di provare a depositarla sulla superficie dell’acqua: immancabilmente affonda. Una volta recuperata (non s’impregna d’acqua perché idrorepellente), s’incarica un bambino di appiattirla dopo averla trattenuta al tepore delle mani per un po’. Fra due fogli di pellicola trasparente o di carta da forno la si può rullare con una matita a mo’ di piccolo mattarello. Ottenuta la sfoglia sottile, si modella una barchetta rudimentale, al limite una scodella, e la si depone sul pelo dell’acqua. Il peso sostanzialmente non è variato, ma questa volta l’oggetto galleggia, perché sposta un volume maggiore di liquido.
Su questo principio, gli ingegneri navali, civili e militari, hanno sostituito travi ed assi di legno con equivalenti strutture di acciaio per costruire petroliere, città galleggianti per lussuose crociere e minacciose macchine da guerra.
Per finire questo scritto, una curiosità ancora. Durante la prima guerra mondiale, l’acciaio disponibile allo sforzo bellico non sembrava sufficiente e si ricorse allora al cemento armato per costruire navi che non dovessero affrontare un diretto scontro a fuoco. La più famosa di una dozzina di esse è forse la SS. Selma della Marina degli Stati Uniti (di quasi 7000 tonnellate e lunga ben 125 metri) varata il 28 giugno 1919, proprio il giorno in cui la Germania firmò la resa a Versailles. Questa nave militare atipica fu poi convertita in petroliera e concluse i suoi giorni (non essendo redditizio il suo smantellamento) come barriera fluviale semiaffondata nel canale di Houston, dov’è tuttora meta di bizzarro turismo tutto made in USA.