LA PESTE E LA DIMENTICANZA di Letizia Gariglio
In questi giorni, in cui stiamo imparando il significato di «restare a casa», faticando moltissimo a introiettare il senso profondo dell’espressione, pare che abbiamo più tempo per apprendere nuovi termini, soprattutto termini e espressioni mediche, definizioni di un registro linguistico che normalmente non ci appartiene. Ben disposti a capire il significato di «rapporto di Erre con zero» (R0) vale a dire il numero di persone che, in media, ogni individuo infetto di Covid 19 contagia a sua volta, affannosamente impegnati nella ricerca (che avviene rigorosamente davanti al televisore) del paziente 0 o 1, pensiamo in continuazione – ben supportati dalla disastrosa macchina dei media che dicono tutto e il contrario di tutto -, alle nostre paure, passando dalla peggior forma di panico all’auto-rassicurazione, narrandoci così che, anche se siamo vecchi, (forse) cureranno anche noi, persino noi!
La memoria per fortuna fa qualche fatica a rammentare precedenti pestilenze, almeno nella grave forma di quella attuale: alcune pestilenza hanno toccato solo marginalmente le vite nostre e dei nostri contemporanei. Ci viene in aiuto la letteratura, a partire dall’antichità, ma anche la letteratura contemporanea, che ci ha fornito esempi notevoli: è attraverso le storie che abbiamo conosciuto vicende e significati metaforici di epidemie, pandemie e malattie, protagoniste di romanzi. Certe Malattie, scritte con la maiuscola, sono le vere rappresentanti del male non solo fisico, e non è un caso che la catastrofe dell’infezione epidemica o pandemica venga innescata e veicolata, nell’immaginazione di ieri come in quella di oggi, da animali immondi e poco amati: i sudici ratti, gli striscianti serpenti, i pipistrelli dalle lunghe ali nere. Anche l’aggettivo nero affonda le radici nel mondo oscuro: come le vele nere, la peste nera, l’uomo nero delle fiabe, l’umore nero. La pestilenza è sempre nera perché è estrema, suggerisce agli uomini l’abbandono da parte di Dio, oggi come ieri, per colpa o per destino, e li rende comunque sottilmente responsabili di sé, della propria fine o della propria salvezza. Tutte le pestilenze, reali o letterarie, come la peste, il colera, la tubercolosi, il vaiolo, l’asiatica, la Sars, suggeriscono metaforicamente, con l’inettitudine di un corpo, anche quella di un’intera società, di un modo di vivere, di essere, di scegliere e di darsi volontà.
La letteratura ci fornisce molti esempi nei quali i temi dominanti delle epidemie e dei contagi minano profondamente le strutture di una società, o ne rivelano le basilari magagne in grado di portarle allo sprofondamento. Ma le pestilenze letterarie peggiori sono quelle che riguardano l’annichilimento della memoria e lo scempio della cultura. Occorre che citi ancora Orwell (compare spesso nei mei articoli) in cui si racconta ( nel romanzo 1984) che per dominare un popolo occorre nullificare la sua memoria, demolire i ricordi individuali e collettivi manomettendo i ricordi (leggi: la Storia) fino a nullificarli: le memorie storiche devono essere reinventate e riscritte in modo che i saperi del passato siano vanificati. Penso però anche a Bradbury (Farenheit 451) e alla necessità di opporsi solo con la memoria personale alla distruzione fisica dei libri con il fuoco. Penso alla peste dell’insonnia che in Cent’anni di solitudine (di Gabriel Garcia Marquez) coglie gli abitanti di Macondo, portandoli progressivamente alla perdita della memoria; gli uomini cercano inutilmente di opporsi quando scrivono su biglietti il nome e le istruzioni per l’uso di cose e animali. In auto-quarantena, impossibilitati a mangiare o bere perché tutte le cose erano contaminate di insonnia, gli abitanti di Macondo scrivevano, arrivando persino a inventare il «dizionario girevole a manovella».
Ma non fu quello a salvarli.
Fu l’amicizia.