QUANDO IL MAESTRO ERA MAESTRO di Rossella Monaco
Per fare di un maestro un Maestro non basta un titolo di studio o un annoiato insegnare a memoria date e fatti, preferibilmente di guerre & patria, quante battaglie “abbiamo” vinto o perso, imprigionandoci già da bambini dentro cartine geografiche da difendere con le armi, si fa il tirocinio con quelle giocattolo (giocattolo?). Un Maestro deve possedere cultura illuminata, spazio mentale e coraggio. Talmente scontato da essere raro, anzi rarissimo.
Francesco Antonio Gisondi, eclettico insegnante di scuola primaria, scrittore, saggista, pedagogo innovatore, creativo progressista, amante del teatro, era un Maestro. Il sogno di ogni piccolo studente rivoluzionario pronto a liberarsi dagli abitini stretti imposti dalla società.
«Chiamatemi gallinaccio, babbuino, maiale, ma non signor maestro», ci disse la prima volta che entrò in classe, «Il maestro può apparire dentro di noi, sotto la corteccia di un albero, nello sguardo di un micio, nell’abbraccio di un amico, quando meno ce lo aspettiamo, ma non è mai preconfezionato. E se volete uscire dall’aula per andare in bagno o per altri motivi, fatelo, senza chiedermi il permesso». Avevo dieci anni e facevo la quinta elementare alla Giacomo Leopardi di Roma quando queste parole mi colpirono al cuore come un koan Zen: com’era dolce la sua voce!
La fisionomia luciferina di Francesco Gisondi nascondeva un animo comico, sostenibilmente “leggero” e filosofico. La scuola era il suo campo maieutico. Nel corso degli anni ho pensato a lui come al Socrate dei bimbi. A volte gli bastava uno sguardo intenso, una parola, una barzelletta, per evocare verità. Era in grado di far emergere qualità e talenti degli alunni attraverso il dialogo e il suo “teatro operativo”, ovvero la preparazione di testi, di scene, l’impegno di lavoro, di ricerca, di indagine, la critica costruttiva, le attività manuali e pratiche.
Recitando epigrammi di Marziale, poesie di Trilussa, testi di Goldoni, inventando canovacci, mini pièce teatrali, assimilavamo lo studio divertendoci e non solo, timidezze, paure, nevrosi e soprattutto i condizionamenti operati dagli adulti svanivano come ombre al sole.
«Gli adulti (e la scuola) desiderano che i bambini ragionino, parlino, scrivano, agiscano come adulti e facciano cose da adulti, ignorando in pieno le esigenze psicologiche dell’età, negando ogni forma di rispetto e comprensione alle loro genuine espressioni»: parole di Francesco Gisondi.
Il fanciullo già nei primi anni di vita è pregno di una vera e propria cultura, un sapere incomprensibile per gli adulti, ma non per questo meno sintomatico. Diventando un “bambino adulto” il bambino perde ogni magica sapienza. «Quando il bambino era bambino … per lui tutto aveva un’anima e tutte le anime erano un tutt’uno».
Célestin Freinet, ispirandosi a Maria Montessori, a Claparède e ad altri pedagogisti famosi, determinò il rinnovamento educativo nella scuola. L’insegnamento andava laicizzato, destrutturato il suo modello militaresco e religioso. La fabbrica dei soldatini e delle mammine aveva fatto il suo tempo. Innanzitutto bisognava cambiare l’assetto dei banchi, non più rivolti verso l’autorità del precettore, ma sistemati in cerchio. Il girotondo la sa lunga! «Se cerco nel cerchio, lo trovo, lo sento» dice la filastrocca di Gianni Rodari. Ed è lì il punto, sentire il contatto gli uni con gli altri, trovare lo sguardo fraterno. Il cerchio dà forza, dà unione. La curva è morbida, non chiede fredda obbedienza. L’importante è donare agli allievi il senso della felicità attraverso l’esperienza diretta.
Gisondi prosegue e sviluppa le “tecniche pedagogiche” dei suoi predecessori teatralizzando lo studio. La cattedra si abbassa e diventa una pedana-palcoscenico. Lì si declamano testi e poesie, ma anche numeri e geografia, l’importante è rivolgersi ai compagni e non al maestro.
«Da piccoli attori assimilavamo lo studio a velocità sorprendente, eravamo poeti, commediografi, matematici astratti, inventori».
«Per me i numeri sono profumati, apprendevamo l’aritmetica contando le margherite e altri fiorellini. Il tre per esempio sa di papavero».
Poi c’è l’umorismo.
«Le barzellette divertenti, a scuola, dovrebbero entrare di diritto come mezzo di piacevole narrazione. Verrebbero accettate dai bambini certamente meglio di quei tanti fattarelli sciocchi e insulsi che a decine si leggono sui libri di testo, e che vorrebbero avere una morale edificante, mentre risultano falsi e noiosi». F.G.
«Ridere ossigena il cervello e ci rende intelligenti, lo sanno persino i dittatori e gli scimpanzé. I primi avversano la cultura della risata come si trattasse di alto tradimento, chi osa ridere alle mie spalle? Guai a chi cerca di essere felice, la felicità non è gestibile. I secondi si sganasciano per alleviare tensioni territoriali o per piacere alle scimmie femmine. Cosa voglio da uno scimpanzé maschio? Soprattutto che mi faccia ridere».
C’è l’educazione alla pace.
… «Recitare» Hiroshima, sotto la guida di Gisondi, sarebbe un contributo alla rottura di tanta ottusa eternità ». Bisogna quegli strumenti darli prima di tutto all’infanzia», scrive Cesare Zavattini nella prefazione al libro “I ragazzi fanno teatro” di Francesco Gisondi.
Nello spettacolo i bimbi interpreteranno scene di grande intensità drammatica, con mascheroni sporchi di sangue e maschere deformanti.
Mai più al mondo bombe atomiche, mai più… mai più, viva la pace!
Già.
Gli anni a venire hanno dissolto ogni speranza, la salvezza della Terra è nelle mani di una ragazza di nome Greta e del rinsavimento collettivo.
La domanda è: Come sarebbe il mondo se la pace fosse stata insegnata nelle scuole al posto della guerra? La risposta è talmente scontata da non essere presa in considerazione.
P.S.
Caro Gallinaccio, Babbuino, Maiale, o “Illuminato provocatore” come ti appellava l’amico Cesare Zavattini, grazie di “Tutto” e soprattutto grazie di avermi spinto sul palcoscenico del Civis di Roma insieme ai ragazzi della quinta A, facendomi perdere ogni inibizione e innamorare del “sacro luogo”.
Tua “Rosaura”, sciantosa decenne,
Rossella Monaco