INCONTRO IMPOSSIBILE AL PARCO DI PINOCCHIO di Pietro Paolo Capriolo

«Signor Giuseppe, che poi sarebbe il suo vero nome, benvenuto al nostro incontro. Le ho dato appuntamento qui nella frazione Collodi del comune di Pescia (Pistoia) dove il suo ideatore trascorse buona parte della sua infanzia. Diversamente non saprei dove collocarla sia nello spazio e sia nel tempo».

«A sentirmi chiamare Giuseppe proprio non sono abituato. Per tutti io sono Geppetto, preceduto da mastro, un titolo che mi definisce come artigiano. Ho un nome proprio alterato, diminutivo, vezzeggiativo o roba simile, sa non ho fatto grandi studi linguistici…»

«Veramente avrebbe anche un soprannome che la fa imbestialire: Polendina, con la D alla vecchia maniera toscana, per via della parrucca gialla».

«Per carità, non si permetta pure lei come i ragazzi del paese!»

«Però, per par condicio, anche l’altro falegname della storia ha un bell’epiteto: mastro Ciliegia, a causa del naso sempre rosso per il troppo vino e questo è un soprannome meritato, mentre camuffare la calvizie con una parrucca giovanile no. Semmai è un po’ patetico, non le pare?»

«Patetico sì, come un po’ tutta la figura che ci faccio nella storia a cominciare dalla mia caratterizzazione. Il Lorenzini mi ha creato così povero che persino il fuoco e la pentola nel caminetto sono dipinti. Vivo d’illusioni e son costretto a scaldarmi con un braciere che poi carbonizzerà i piedi del mio sventurato figliolo nel sonno».

«Dev’essere proprio stato in preda alla disperazione quando decise d’andarsene in giro per il mondo a guadagnarsi il pane ed un bicchier di vino servendosi d’un burattino di legno ancora però da costruire e senza averne la materia prima».

«Già, proprio così e che vergogna dover mendicare un pezzo di legno grezzo da quell’altro falegname che sentiva una vocina preoccupante in casa propria, tanto che fu ben disposto a regalarmi quanto richiestogli, purché lo liberassi della causa del suo spavento».

«E, sempre per colpa della strana creatura lì rinchiusa, ve le siete date di santa ragione. Conosco la storia. Piuttosto, parlando con la segretaria dell’Agenzia delle Interviste Impossibili, ci chiedevamo se l’impulso ad abbandonare il paesello le sia venuto dalla vista del girovago Mangiafoco che, come è descritto poche pagine oltre, aveva messo su baracca e burattini – eh, è proprio il caso di dirlo!-  allestendo sulla piazza il suo teatro delle marionette. A differenza dell’opinione della signora, io sostengo che a quell’epoca doveva essere un mestiere alquanto redditizio. Lo deduco dal fatto che abbia voluto regalarle, benché non la conoscesse nemmeno, ben cinque zecchini d’oro, quelli che poi furono occasione di ulteriori sventure per Pinocchio».

«Ne avrei fatto buon uso, non certo spendendone subito uno per la cena ed il pernottamento nell’osteria del Gambero Rosso con il gatto e la volpe. Piuttosto che possedere un solo burattino, avrei potuto allestire una mia piccola compagnia di marionette…»

«Scusi se la interrompo, ma siamo in molti a domandarcelo: Pinocchio è un burattino – sa è lui stesso a definirsi così sul finale della storia – oppure una marionetta? Le marionette di Mangiafoco, ad esempio Pulcinella e Arlecchino lo chiamano “fratello”; eppure, queste per muoversi hanno bisogno dei fili. La sua creatura invece è animata di vita propria».

«Proprio in questo sta la differenza principale. La vita in lui era già da prima che io lo liberassi dalla sua lignea prigione. Oh via! Son falegname, mica teologo: che ne so io d’infusione dell’anima? Però una cosa mi va di dirgliela: mentre lavoravo di scalpello, la mia creatura già parlava, rideva e anche si muoveva da impertinente, mica come il Mosè di Michelangelo che, pur così veridico, si meritò dal maestro una martellata sul ginocchio perché non era nemmeno in grado di parlare!»

«Modesto, eh! Nientemeno che paragonarsi al Buonarroti, adesso…»

«Non fò per dire ma, secondo me, si tratta della scelta della materia prima: legno non marmo.»

«Ma mi faccia il piacere! La sua fama è tutta dovuta all’ingegno del Collodi: senza di quello il suo burattino sarebbe ormai roso dai tarli, mentre il Mosè nella basilica di san Pietro in Vincoli anche dopo cinque secoli pare eterno, come la gloria del suo scultore».

«Sì, ha ragione. Mi scuso. La mia manuale attività scultorea fluisce dalla penna del Lorenzini. Eh, per un momento ho avuto un momento di superba ebrezza, lo ammetto».

«Via, Geppetto, non sia così contrito. In fondo, e non certo per il materiale di cui era costituito, il suo Pinocchio gode però di ottima fama in tutto il mondo. Anzi una certa dose di immortalità già ce l’aveva quando si svolgevano le sue disavventure. Intendo proprio immortalità nel senso letterale».

«Ben la capisco e condivido. Pinocchio com’era ribelle a me, lo era anche nei confronti del suo vero papà Carlo Lorenzini, o Collodi come lo chiama lei, il quale pubblicando la sua storia a puntate sul Giornale per i bambini  aveva tentato più di una volta di farla finire. No! Pinocchio era entrato nello spirito e nelle simpatie dei lettori; i ragazzi, il pubblico tutto, l’editore stesso pretesero che la vicenda continuasse».

«Mi viene in mente subito il caso della morte per impiccagione dove traspare chiaramente l’espediente di liberarsi del suo personaggio».

«Guardi, proprio questo tentativo di far finire la storia mi sta molto a cuore. Poco prima di esalare l’ultimo respiro il burattino invoca me, come farebbe un bambino vero rivolto alla sua mamma. Riandando a quell’episodio, posso dire di essermi sentito più che babbo, ma addirittura in certo qual modo anche madre».

«Difatti, l’autore da questo momento introduce una figura femminile che fino ad allora mancava: la fata turchina, dapprima bambina/sorella e poi con le prerogative di mamma vera e propria».

«Proprio grazie a questo espediente è possibile proseguire la vicenda ed introdurre scene di autentica comicità quale la descrizione dei capricci per non bere la medicina amara e della crescita sproporzionata del naso con la celebre definizione della natura delle bugie: alcune con le gambe corte ed altre con il naso lungo».

«Sì, anche l’evocazione della morte imminente è risolta con umorismo ed infantile realismo, vedasi la comparsa dei coniglietti neri che reggono una piccola bara ed il loro allontanarsi rassegnato a tornare una prossima volta».

«Anche il precedente consulto clinico al capezzale del burattino è di una comicità lapalissiana e per nulla risolutivo sullo stato di vita o morte del malato. Sarà il terzo medico, il Grillo parlante, richiamandogli la figura paterna, a far pentire e singhiozzare fra le lacrime il burattino e quindi a richiamarlo in vita, per così dire».

«Il Collodi/Lorenzini, non potendo rinunciare al successo delle invenzioni di precedenti puntate, va via via però meglio caratterizzando i suoi personaggi. Prendiamo ad esempio lei, Geppetto».

«Sarebbe?»

«Nelle prime pagine, dopo la cattura del burattino da parte del carabiniere che lo acciuffò per il naso nel tentativo di passagli fra le gambe, lei è pubblicamente accusato dalla folla di essere un “tiranno con i ragazzi” tanto che il popolo parteggia per il monello ed il rappresentante della legge si vede costretto ad arrestarla e condurla in carcere per una notte. L’accusa evidentemente è per maltrattamenti su minori o eccesso di mezzi correttivi come diremmo ora».

«Pessima figura e che brutta opinione avevano di me i compaesani!»

«Però l’aveva preso per la collottola e minacciava chissà quale terribile punizione».

«Ma continui, la prego, sulla mia metamorfosi. Ricorderà che dopo la notte in prigione tornai a casa talmente cambiato ed intenerito, disposto non solo a rifare i piedi carbonizzati al burattino, ma anche a cedere a lui la mia colazione di tre pere (e, tra parentesi, quale spasso nel vedergli fare prima lo schizzinoso e poi divorare anche la buccia ed i torsoli!) per non parlare dell’andare a rivendere la mia casacca per comprargli il libro per la scuola, restando letteralmente in maniche di camicia».

«A proposito del suo fermo, questo fu motivato dall’aver preso per il collo il burattino, non potendogli tirare le orecchie, perché solo allora si accorse di non aver fatto in tempo a fargliele. Ma gliele ha poi fatte?»

«Neanche per sogno ed infatti tutti i pupazzi che rappresentano Pinocchio non le hanno mica.»

«Qui la volevo. Com’è allora che, nel Paese dei Balocchi, passi a Lucignolo, ma anche a Pinocchio le orecchie sono cresciute smisuratamente tanto da doverle nascondere sotto un grande berretto?»

«La loro crescita è il primo sintomo della natura asinina in loro, poi saranno i ragli al posto della parola ed infine la trasformazione in ciuchini sarà completa».

«“Interdum etiam bonus dormitat Homerus” (= Anche il grande Omero ogni tanto sonnecchia) secondo una sentenza medioevale derivata da una osservazione di Orazio per giustificare alcune incongruenze negli immortali poemi omerici. Anche al vostro ideatore dev’essere successo, oppure il particolare della scoperta d’aver le orecchie da asino gli piacque così tanto da infischiarsene della coerenza narrativa».

«Sarà così. Le dirò che non me ne sono mai dato pensiero perché, quando i pesci divorarono il mantello destinato a servire da pelle per un tamburo, al ciuchino Pinocchio devono aver fatto sparire pure le orecchie. Me lo ritrovai come l’avevo fatto e, ora che ci penso, non era nemmeno più zoppo da entrambe le gambe per la caduta nel tentativo di saltare attraverso il cerchio, inconveniente che fu la sua rovina come animale da circo. Magari lei dirà che è un’altra incongruenza e distrazione del Collodi. Ora però la devo salutare. Non vorrei che Johnny Dorelli nel cantare “…forse Babbo Geppetto è con te?” non mi trovasse».

«Addio e… complimenti per l’ottimo commiato. Le confesso che, quando fui ammesso nei pueri cantores, il buon maestro di musica (di cui ricordo soltanto il soprannome di don Si Bemolle) non ci fece apprendere subito qualche lode o inno sacro, ma a noi fanciulli insegnò proprio la canzone Lettera a Pinocchio di Mario Panzeri, resa celebre dal Dorelli».

Potrebbero interessarti anche...