DANTE SPEZIALE NELL’INFERNO di Letizia Gariglio
Al mondo vegetale Dante fa corrispondere simboli, allegorie, segni: molte sono le citazioni di alberi piante, fiori , frutti, semplici erbe della campagna, piante officinali, in tutte tre le Cantiche.
Nel Secondo Canto dell’Inferno Virgilio esorta Dante a vincere i suoi dubbi, gli infonde forza e coraggio, grazie alla protezione delle tre donne benedette, Maria, Lucia e Beatrice. Come i fiori, chiusi quando percepiscono il gelo notturno, si riaprono al calore del sole, così Dante si risolleva (Inferno,II, 127-131):
«Quali i fioretti, dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ‘l sol li ‘mbianca
si drizzano tutti aperti in loro stelo…»
In Inferno III, 112-115 scrive delle anime e del loro modo di scendere dalla barca di “Caron Dimonio”, rispondendo al suo richiamo, vale a dire come le foglie che in autunno si sollevano dall’albero e lasciano le loro spoglie a terra:
:
«Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso dell’altra, fin che ‘l ramo
vede alla terra tutte le sue spoglie,
similmente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come auge per suo richiamo».
Nell’Inferno (XIII, 40- 42 descrive quel che accade a un ramoscello verde di pruno bruciato ad una delle sue estremità: manda l’acqua all’altra estremità insieme all’aria, e ciò fa stridere . Così lo paragona al sangue e alle parole delle anime.
«Come d’un tizzo verde ch’arso sia
dall’un de’ capi, che dall’altro geme
e cigola per vento che va via,
sì della scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue;…»
Sempre Nel Canto XIII dell’Inferno XIII, 35 e seguenti, nel VII Cerchio, dove Dante e il suo accompagnatore entrano in un bosco privo di verde, con caratteri oscuri, «di colore fosco». I rami sono contorti e nodosi, mancano frutti ma vi sono spine velenose . È la selva dei suicidi, tramutati in sterpo e straziati dalle Arpie, sottoposti alla legge del contrappasso e dunque costretti a essere straziati come essi straziarono il proprio corpo. Dante stacca qualche ramoscello da un gran pruno spinoso, ed ecco che il tronco si scurisce di sangue. Si tratta di Pier delle Vigne, che spiega come le anime dei suicidi si leghino a quei tronchi nodosi. L’anima si stacca dal corpo, spiega, e Minosse la manda al settimo Cerchio dove germoglia, poi cresce in un virgulto, poi diventa pianta silvestre.
«…Perché mi scerpi?
Non hai tu spirto di pietà alcuno?
«Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:»,
ben dovrebb’esser la tua mano più pia,
se state fossimo anime di serpi».
E poi spiega:
«quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,
Minòs la manda alla settima foce.
Cade in la selva, e non l’è parte scelta,
ma là dove la fortuna la balestra:
quivi germoglia come gran di spelta».
Poi prosegue, dicendo che diventa virgulto e poi pianta silvestre:
«Surge in vermena, ed in pianta silvestre…»
Nell’Inferno XV, 61- 66 accenna al dolce fico. Brunetto paragona Dante con la dolcezza del fico, in contrapposizione del sorbo, che rappresenta i cattivi cittadini di Fiesole.
«Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno:
ed è ragion, che tra gli lazzi sorbi
si disconvien sfruttar lo dolce fico».
Siamo nel Cerchio VII. Qui sta parlando con Brunetto Latini, suo maestro, guelfo che, dopo la sconfitta dei Guelfi a Montaperti, nel 1260, visse in esilio. Dante lo incontra fra la schiera dei sodomiti (considerati violenti contro natura).
Nel Canto XXXIII, infine, Dante incontra frate Alberigo, che ha ucciso i suoi parenti, dopo averli invitati a pranzo. Terminata la cena, servita la frutta, avanzarono gli armati e uccisero tutti gli invitati. Ora sta scontando una pena anche più grave (dattero per figo). Ecco le parole di Dante ( XXXIII, 18-20):
« “Io son frate Alberigo;
io son quel dalle frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo”».
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