CAPIRSI di Pietro Paolo Capriolo

Si stima che al tempo dell’Unità d’Italia quelli che conoscevano l’italiano sfiorassero appena il dieci per cento. Il detto attribuito a Massimo d’Azeglio che, fatta l’Italia bisognasse ancora fare gli Italiani, può benissimo estendersi anche al comune parlato delle popolazioni aggregatesi nel nuovo Regno. Per i più, l’italiano era lingua straniera a tutti gli effetti.

Nelle zone in cui oggi ancora si usa il dialetto, lo si fa nel rispetto della tradizione dei padri e, comunque, i nostri bimbi ormai sono bilingui, grazie all’influenza della televisione e della scuola dell’infanzia.

Ricordo l’intenso lavorio mentale della traduzione bidirezionale già iniziato all’asilo e con l’apprendimento di facili preghiere a memoria. Né posso scordare l’imbarazzo nell’accostarmi alla maestra per chiederle come si dicesse in italiano quella cosa che il nonno accendeva con il “brichetto” (= fiammifero) e si fumasse beatamente dopo pranzo. «Sigaro! Lo vedi fare sempre e non sai come si dice?» fu la risposta, oltretutto, con un termine al maschile per una cosa che a me risultava femminile: la sigàla.

Scrivere un pensierino descrittivo, per me come per gli altri scolaretti di famiglie immigrate dal Sud o dal Veneto, era impresa più ardua di quella dei due compagni a cui i genitori si rivolgevano solo in italiano. Passando fra i banchi, una volta, urtai il gomito di uno di costoro mentre stava scrivendo, causandogli uno scarabocchio. Quello mi fece: «Ma sei orbo?» ed io di rimando: «No, Piemontese», mai più immaginandomi che il termine orbo significasse essere privo della vista!

Pur nella sua generale estraneità, un’altra lingua accomunava tutte le popolazioni ed era il latino delle funzioni religiose e delle orazioni, con un corollario variegato di strafalcioni e stravolgimenti lessicali e grammaticali per le desinenze in emme ed esse inserite a casaccio.

Ancora oggi vige il luogo comune che lo spagnolo sia sostanzialmente una sorta di “italiano” che abbondi di esse finali e guai poi a dire ad una signora «Te quero» (= Ti amo),  intendendo porle una domanda o confondere sull’autobus la «salida» (= uscita) per il contrario della discesa. No, gli Spagnoli non sono un popolo analogo alle formiche che per uscire di casa devono affiorare dal sottosuolo!

Figuriamoci la conoscenza delle vere lingue straniere fra il popolo. In verità, in Piemonte una certa affinità di suoni ed una derivazione comune permetteva già allora qualche forma di comunicazione con le genti d’oltralpe, ma non era tutto scontato.

A me piace raccontare questa storia buffa, puramente inventata, ma molto probabile. Bisogna ambientarla nell’epoca di Napoleone, ai tempi della prima calata con l’esercito in Piemonte nel 1796, quando di sorpresa aveva battuto le milizie imperiali e piemontesi, prendendosela soprattutto con i nostri, tanto che Vittorio Amedeo III di Savoia aveva dovuto chiedere la tregua firmata a Cherasco. Nemmeno un mese dopo, Napoleone entrava in Milano e, sempre vittorioso, marciava su Vienna. L’anno dopo, con la pace di Campoformio, se ne tornava a Parigi a godersi la gloria (e la moglie Giuseppina sposata appena un mesetto prima della partenza per la campagna d’Italia).

Finalmente, nei territori occupati si riprendeva a vivere meglio e sulle bancarelle dei mercati si vedeva ritornare in abbondanza la merce.

Un giorno di fiera, il comandante della guarnigione lasciata a controllare una borgata strategica, un sottotenente che aveva dovuto interrompere gli studi per la guerra, si prende un’oretta di tempo per andare a gironzolare per le strade e sulla piazzetta.

Una donna della collina, dalla sana carnagione bianca e rossa, aveva appena scaricato dal carro una mezza dozzina di sacchi di nocciole e ne aveva sciolti due, rovesciandoli poi in panieri e ceste sul banchetto costituito da assi e cavalletti.  Qualcuna era rotolata per terra, subito raccolta dai ragazzi che attendevano solo questo momento, come farebbero i nostri ora con le caramelle.

«Ti ho visto, monello!», diceva lei, ma senza prendersela troppo: sapeva bene che questa era la forma migliore di pubblicità alla sua mercanzia. 

Di lì a poco, attorno c’è tanta gente e la venditrice ha il suo bel da fare a pesare con la bilancia, a versare nelle borse di stoffa delle paesane, a riscuotere i soldi e dare il resto.

L’ufficialetto francese appoggiato ad una colonna la guarda con attenzione e, quando la donna ha un po’ di calma intorno, le si avvicina curioso. Il suo è più che altro un interesse culturale. Protendendo la mano, vuol sapere come si chiamino qui le nocciole e le chiede:

«Comment s’apellent-ils  (= Come si chiamano? Ma la donna capisce: come si pelano?)

Allora lo guarda e le scappa da ridere, ma poi vedendolo così giovane gli dice:

«Non si pelano mica! Si schiacciano; si rompono, ma senza sbriciolarle.»

L’ufficiale vuol farselo ripetere, perché non ci ha capito niente:

«Comment?» (= Come? Lei però capisce: con le mani?)

Proprio non sa cosa pensare: se questo forestiero è tanto ignorante o se ci prova con le donne. A buon conto, gli risponde:

«Eh, anche con le mani, ma son troppo dure: meglio sotto i piedi o con lo schiaccianoci. Se non ce l’hai, usa una pietra per rompere il guscio.»

Lui riprova un’altra volta a dire che non capisce:

«Je ne comprends pas.» (= Non comprendo. Lei però intende: non compero mica)

Vedendo arrivare altri clienti, la donna taglia corto:

«Se non fai acquisti, non mi far perdere tempo!»

Il soldatino se ne va scuotendo la testa. Allora lei, girata verso Filippo che nel banchetto vicino vende mele dal peduncolo corto (= varietà detta carpendù), esclama:

«Ah… Questo stupido di francese! Faceva il cascamorto con me… Fortuna che ho capito tutto e l’ho mandato a quel paese!» In piemontese schietto avrebbe detto: a dëspané ëd melia! (= a scartocciare le pannocchie di mais).

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