LA VOCE IMPAZIENTE. VIAGGIO NELLA POESIA (28, 29, 30) di Grazia Valente

28. La parola è indomabile

Poiché la parola non sempre ci segue, spesso dobbiamo rincorrerla, catturarla, domarla. E a volte  il risultato non è quello che avremmo voluto.

Seguo la traccia scura

                                   il filo nero sul foglio

                                   ingarbugliato

                                   attorcigliato al rigo

                                   incuneato tra le dita

                                   come un ragno esasperato

                                   davanti alla sua tela

                                   non riuscita.

Anche la collaudata intelligenza del ragno può trovare ostacoli. Ma possibile che egli non sappia più tessere la sua tela? Quella tela che, catturando insetti, gli è necessaria per sopravvivere?   Forse si può intravedere, in questa ribellione della tela nei confronti del suo tessitore, il rifiuto della poesia a irretire, vale a dire a ingannare. E quindi, se si tenta di farlo, la parola si fa confusa, contraddittoria. Non diventerà mai poesia. Non abbiamo risposta a queste domande. Quanto può sentirsi solo, il poeta!

29. La solitudine del poeta

                                   Le voci dei poeti

                                   sono lontane anni luce,

                                   solitari meteoriti

                                   alla ricerca delle stelle

                                   perdute.

Il poeta è consapevole che il mondo al quale egli aspira è oggettivamente lontano. Non soltanto un particolare modello di mondo migliore, vale a dire di società, che – consapevolmente o meno – ha sempre ispirato l’artista. Il desiderio è soprattutto quello di una umanità migliore, poiché il poeta vede, addita, denuncia. E al suo realismo di veggente non sfugge l’amara considerazione che tale traguardo è collocabile ad anni-luce di distanza. 

Ma l’immagine dei meteoriti, che vorrebbero ricongiungersi alle stelle d’origine, è anche la trasfigurazione lirica del desiderio del poeta di sentirsi parte di un tutto e non scagliato al pari di una scheggia nella solitudine cosmica. Infatti il poeta, più che bearsi della propria solitudine, (atteggiamento che gli conferirebbe quell’alone di romanticismo al quale invece è bene sottrarlo) la subisce, accettandola infine come inevitabile. 

30. Il pessimismo del poeta

Si parla spesso di un pessimismo del poeta, in senso negativo.

                                   La mia penna è intrisa

                                   d’aurora

                                   ma la mente è inseguita

                                   da ombre notturne

                                   fruscianti

                                   su bianche pareti extra-strong.

Tutti vorremmo scrivere cose che suscitino speranza nel futuro, ma la mente raziocinante non sempre è condiscendente, poiché la poesia è, innanzitutto, verità, anche se si tratta di una verità carica di umanità e quindi che non vuole giudicare o condannare, ma illuminare.  E se il poeta vuole restare fedele a tale principio non potrà sfuggire al gramsciano  pessimismo della ragione  che lo induce a fissare lo sguardo sulle cose che non vanno piuttosto che su quelle che, in qualche modo, offrono soluzioni. Quindi, se per ottimismo si intende, come spesso accade, nascondersi o minimizzare  le difficoltà, allora certamente il poeta, che invece le difficoltà le vede, le soffre e le analizza, è un pessimista (1). Ma tutto questo alla fine ci sembra fuorviante.

(1) Diceva Sciascia: “Il vero pessimismo sarebbe di non scrivere più, di lasciare libero corso alla menzogna. Se non lo faccio, vuol dire, in definitiva, che sono inguaribilmente ottimista”.

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