VIAGGIO DI UN TARLO IN UN’OTTAVA racconto di Letizia Gariglio (Sesta Parte)
Carlo era contento che il suo potenziale assassino se ne fosse andato, ma restava in grande agitazione. Cercò di calmarsi.
«Farò così», si disse, «farò finta di essere ancora una larva, quando vivevo nelle profondità delle gallerie. In fin dei conti in una fase della mia vita io ho conosciuto questa condizione: sono esistito allo scuro, al buio, nelle profondità del legno. Ora penserò così: io sono in grado di affrontare questa situazione. Ce la farò». Con la forza della disperazione si aggrappò con tutte le sue zampe sui bordi lisci della voragine e provò a affrontare la risalita. Secondo i suoi calcoli, se si teneva verso monte, a un certo punto avrebbe dovuto trovare le sponde della piattaforma nera: anche fra DO e RE, e poi fra RE e MI aveva trovato una piattaforma nera.
Ma quella piattaforma, questa volta, ci sarebbe stata? Si sarebbe profilato un pezzo di terra provvidenziale che l’avrebbe accolto come un naufrago? Giungere fino alla terra successiva, date le condizioni in cui si trovava, sarebbe stato davvero arduo. Era stanco, stanchissimo, spaventato, deluso dal comportamento degli uomini. E soprattutto, si sentiva tanto solo. Iniziava a dubitare delle sue forze, Peggio: dubitava di aver davvero voglia di vivere. Dubitava di voler partecipare a quel mondo che l’aveva messo in queste dure condizioni. Pensò a sua madre, in cerca di conforto. Ma ora neanche quel pensiero riuscì a aiutarlo. Allora, Carlo il tarlo pianse.
Piangeva così disperatamente che non gli importò un bel nulla quando sentì il ragazzino avvicinarsi a quello che quei due chiamavano pianoforte. Percepì che il ragazzino cercava la sua presenza fra gli anfratti. Non si chiese se era per curiosità o perché volesse dargli la caccia. Mani Impiastricciate, tanto per cambiare, teneva in mano un cono gelato, con torroncino e cioccolato. Lo leccava rumorosamente, ma lo inclinava pericolosamente verso le piattaforme, finché una bella noce di gelato cadde, infilandosi fra una piattaforma e l’altra. Si infilò anche nella fessura dove si trovava Carlo. Lì, per sua fortuna si incuneò la parte di squisito torroncino, piena di granellini macinati non troppo finemente. Carlo fu tentato di dargli un’assaggiatina: che bella consistenza, pensò, questa materia granulosa, questi corpuscoli legnosi così saporiti. Ma non li lasciò tentare a continuare nei suoi assaggi. Gli era sopravvenuta l’idea che quei minuscoli corpuscoli che si erano incastrati nelle fessure fra le piattaforme avrebbero potuto aiutarlo nella sua risalita. Forse avrebbe potuto usarli come gradini.
Raccolse le sue ultime forze e, aggrappandosi ai minuscoli granelli di torroncino, intraprese la scalata, deciso a riuscirci. Una voce interna lo guidava: «Forza, Carlo, fai così; fa’, Carlo, fa’; Forza, Carlo, fa… fa…». Quando finalmente giunse, baciò la terra che l’aveva accolto.
La chiamò FA.