BENÈFICI VELENI di Pietro Paolo Capriolo (P. P. Roe)
La parola farmaco e quelle derivate (farmacopea, farmacista…) richiamano alla mente forme di benessere e/o di attenuazione del dolore indotte dall’assunzione di uno o più medicamenti combinati fra loro. Però l’eccesso o l’allergia a qualche loro componente ci induce malessere, cosicché si deve improntare alla prudenza il loro consumo per evitare effetti collaterali evitabili, non diversamente dall’alimentazione. La nutraceutica stessa ci suggerisce proprietà presenti a volte già nei rimedi della nonna e nelle diete salutari dei nostri vecchi.
L’erboristeria, per secoli, fu l’unica fonte di medicinali ed ancora adesso dall’osservazione diretta della natura vari utilissimi farmaci sono comparsi sugli scaffali delle farmacie. Due esempi soltanto, ma molto evocativi.
1) L’acido acetilsalicilico, dalle tenere cortecce dei salici rosicchiate dai cervi è passato alle compresse della brevettata Aspirina.
2) Da secoli nei formaggi erborinati d’Italia e stranieri sono presenti ceppi di Penicillium, ma è dall’osservazione di Fleming che è scaturita la penicillina, il primordiale antibiotico dei nostri giorni.
Dalla ricerca scientifica e dall’applicazione di tante scoperte dipende molto del nostro benessere e anche l’agricoltura e la zootecnia ne hanno tratto giovamento. La scoperta che la malaria (nonostante la persistenza del nome) sia trasmessa dalla zanzara anofele inizialmente non giovò molto, dal momento che non si potevano fare efficaci campagne di eradicazione, se non limitandosi a bonificare il territorio, prosciugando le paludi.
Soltanto nella seconda metà del 1900 l’Italia riuscì a raggiungere la quasi totale immunità, a differenza di altri paesi nei quali si registrò il ritardo della profilassi dovuto anche a minore disponibilità economica per campagne su larga scala. Il caso della morte del “campionissimo” Fausto Coppi il 2 gennaio 1960 è memorabile; egli contrasse la malaria in Africa, nell’attuale Burkina Faso, dove si era recato con altri famosi corridori per una competizione. Non diagnosticato in tempo, il contagio ebbe l’esito esiziale.
Con la sigla DDT, nel terzo millennio, ormai si intende Documento Di Trasporto (o, alla vecchia maniera, bolla di accompagnamento), ma sono ancora in molti a ricordarsi di una polverina abbondantemente impiegata per liberarci da vari insetti dannosi o solamente fastidiosi. Il DDT [(diclorodifeniltricloroetano (C14 H9 Cl5)] comparve da noi all’arrivo degli Americani al termine della seconda guerra mondiale. Ci sono filmati dove lo si vede usare sugli abiti e direttamente sulle persone, bambini compresi, per uccidere ospiti indesiderati e forieri di malattie, quali il tifo.
La polvere cristallina, scarsamente solubile nell’acqua, diffusa invece per aerosol, quando giunge a contatto con il sistema nervoso degli insetti provoca loro una spasmodica e rapida morte. Usato con sistematicità in zone acquitrinose, in pochi anni liberò l’Italia dalla malaria.
Il rovescio della medaglia, che cioè proprio non influisse anche sulla salute nostra e degli animali superiori, per molto tempo non fu preso in considerazione, e dopo le prime vendite in farmacia, lo si poteva acquistare perfino nei negozietti di paese. Ho personalmente assistito all’abbattimento in volo di mosche ed al loro successivo “tirare le cuoia” sul pavimento. Già, le mosche oltre alle zanzare, erano il bersaglio principale degli acquirenti, tanto che il DDT ebbe un largo consumo sotto altro nome: FLIT. Esso racchiude in inglese la stessa parola mosca (Fly) associata a Tox (= tossico per le mosche) ed è un mix del prodotto di base diluito in oli e solventi sintetici.
Il nome del marchio registrato del liquido venduto in lattine sostituì ben presto quello della polvere meno pratica da nebulizzare, ma sostanzialmente cambiava soltanto la presentazione al pubblico che lo acquistava insieme allo strumento per diffonderlo nell’aria. Il nebulizzatore era composto da un barattolino/serbatoio del liquido, saldato sotto un cilindro di latta dotato di stantuffo con piccola asta di metallo che terminava con un’impugnatura di legno e sembrava una enorme siringa. Come avviene negli aerografi e dispositivi per verniciare ad aria compressa, un getto d’aria passava sull’orifizio di un tubicino che pescava in fondo al recipiente: per depressione, il liquido saliva e veniva disperso dal soffio provocato dallo stantuffo. Ad ogni spruzzo, anche il rumore sembrava dire: «FLIT – FLIT – FLIT». Con una facile ricerca in Internet, digitando semplicemente FLIT, si ottengono le immagini del vecchio spruzzatore con relativa lattina di ricarica del prodotto.
La vita delle mosche dura al massimo qualche mese. Chissà perché allora si è diffuso lo scherzoso motivetto che fa: «Ammazza la vecchia… col FLIT !»? Il tetro giudice Morton che dà la caccia a Roger Rabbit, per stanarlo dal suo nascondiglio, ricorre all’espediente di canticchiare la prima parte di questo motivetto, tambu-rellando anche sulle pareti e sul bancone del bar, asserendo che nessun cartone animato possa resistere alla tentazione di completare la frase e non venga fuori esclamando «…col FLIT !». Ed infatti il malcapitato coniglio ci casca e viene momentaneamente catturato.
Non soltanto il coniglio Roger fu vittima del FLIT, ma anche un gatto di casa. Non un gatto ipotetico come quello del premio Nobel 1933 per la fisica Ervin Schrödinger ideato per spiegare la teoria quantistica, potendo essere nel suo esperimento contemporaneamente vivo e morto. Il reale gatto in questione era quello delle mie zie. Figuratevi la scena in cui compare un bimbo di sei anni, forse, con indosso un grembiulino a quadretti dal taschino sulla pancia per tenerci il fazzoletto e abbottonato da dietro. Allora non c’erano le pratiche tutine di oggi e dopo la colazione, a mo’ di protezione sopra il vestito, la mamma me lo infilava prima che sciamassi in cortile, presso il pollaio, le gabbie dei conigli, i cumuli di segatura e trucioli della bottega del falegname al piano terreno, la pompa dell’acqua, il monopattino…
Il domestico felino sonnecchiava sul lungo balcone che metteva in comunicazione più alloggi, al primo piano. Ebbi il tempo di organizzarmi, di richiamarlo con la voce e lo strofinio delle dita della mano sinistra, mentre l’altra stringeva dietro la schiena il fatidico marchingegno a stantuffo. Fu un attimo: lo investii con una nuvoletta di FLIT e lui si buttò giù a capofitto passando fra le sbarre dell’inferriata. Atterrò con un miagolio sinistro nel cortile e corse a nascondersi dietro il pollaio in mezzo al fieno per i conigli sotto la tettoia. Per due giorni non si presentò nemmeno per la pappa e, a chi mi chiedeva se lo avessi visto in giro, rispondevo con visino angelico di no. Poi si rifece vivo, ma non mi si avvicinò più. Ogni tanto lo racconto e subito mi viene rinfacciata una bella dose di crudeltà infantile. A mia discolpa, da adulto però, asserisco che il mio intento era di verificare se davvero i gatti cadono sempre in piedi. So di non essere molto convincente, però la mania di controllare le asserzioni degli altri, soprattutto in campo scientifico, l’ho un po’ sempre avuta. Di fatto, ricordo che anni dopo, sul tavolo della veranda, matita alla mano e facendo ogni volta l’addizione, ho verificato i numeri della tavola pitagorica che la maestra ci dava di volta in volta da studiare a memoria, caso mai ce ne fosse qualcuno sbagliato e mi toccasse una fatica inutile!
Ma ritorniamo al DDT. In Italia ne è vietato l’uso dal 1978 e così in tanti altri stati, perché si è scoperto che può essere cancerogeno e si accumula nella catena alimentare (se ne sono trovate tracce perfino nei depositi di grasso degli orsi polari!). Continua però ad essere prodotto ed usato, magari non indiscriminatamente come un tempo, perché le vittime di punture e morsi da insetti sono ancora tantissime. Si stima siano milioni all’anno, con più di quattrocentomila decessi, oltre la metà di bambini al di sotto dei cinque anni. Eh sì, il rapporto rischio/benefici in paesi come l’India e stati africani e sudamericani lo rende ancora un rimedio efficace.