LESSICO E ANATOMIA di Pietro Paolo Capriolo (P. P. Roe)
In un precedente scritto (dicembre 2023) già ho emulato un po’ fra Roberto Pasolini che, partendo da osservazioni sulla lingua, svolge temi di ben altro tenore e genere. Anche questa volta, lungi da improvvisazioni da paludato grammatico, intendo fare osservazioni sul comune modo di esprimerci.
In fondo è anche un po’ doveroso prendere in considerazione le parole, dal momento che questo periodico è proprio intitolato Parole in rete – Words on the net. Tra il diluvio di quelle che ci piovono addosso da varie fonti e di quelle che noi stessi usiamo per rivolgerci ad altri, voglio porre l’attenzione su quelle che in un espediente dialogico, un costrutto, gli addetti ai lavori chiamano locuzione. Il termine, dal latino loquor = parlo, in sé richiama l’intento comunicativo, principalmente a voce. Gli uomini se ne servono con abbondanza tale da impegnare i grammatici di mestiere in varie distinzioni. Abbiamo infatti locuzioni avverbiali (di solito, per lo più…), prepositive (a modo di, riguardo a…), congiuntive (allo scopo di…), aggettivali (stanco morto, di malaffare…), verbali (far di conto, prestare servizio…). Alcune locuzioni hanno dato origine a parole nuove (lavastoviglie, carrarmato…) accostandone due altre o più come in: non ti scordar di me che si può anche scrivere tutto attaccato con l’accento sull’ultima vocale (nontiscordardimé) per indicare un fiorellino dal messaggio romantico amoroso. Il grande Manzoni, chiamandolo dottor Azzeccagarbugli, ha caratterizzato un suo personaggio minore, partendo appunto dalla nomea con cui era conosciuto.
Ce n’è un vero mare ed ogni lingua ha le sue che tradotte letteralmente in italiano possono stupirci non poco. Ad esempio, il nostro piovere a catinelle, per indicare l’abbondanza d’acqua rovesciata dal cielo, diventa in inglese: piovere cani e gatti!
Il nostro dialogare quotidiano ne è infarcito; l’uso della locuzione è come il prezzemolo che si mette un po’ in ogni pietanza (di fatto, perfino questo detto è una locuzione, come in spagnolo estar hasta en la sopa = essere anche nella zuppa).
Mi punge vaghezza di considerare quelle che prendono origine dalle parti anatomiche del nostro corpo che, oltretutto esso stesso si presta a molte metafore gestuali come parti integranti del discorso (fare con le dita le virgolette mentre si dice qualcosa) ed integrali (con la mano indicare di alzarsi, avvicinarsi, fermarsi; porsi il dito indice in verticale sulle labbra per imporre il silenzio…) che rappresentano forme di comunicazione silenziosa. Già i latini per dire controvoglia ricorrevano ad obtorto collo, immagine molto significativa.
Un po’ tutto il corpo ne è coinvolto, dalla zona apicale alle estremità predisposte alla deambulazione, dalla superficie dell’epidermide alle parti più interne, senza tralasciare nemmeno la peluria! Partendo proprio da questa, si può farla in barba a qualcuno e fargli venire un diavolo per capello o procurargli uno spavento da scatenare la pelle
d’oca con i peli ritti. Una condizione di stress fa tremare le vene ed i polsi e un’emozione piacevole/paurosa fa provare un tuffo al cuore e sentirselo battere in gola.
Anche un imberbe cucciolo d’uomo può leccarsi i baffi soddisfatto dopo il gelato non diversamente dal gattino di casa che ha lambito il latte dalla scodella. Gli adulti possono storcere il naso e la bocca non solo ad una proposta gastronomica non gradita, ma anche ad un accordo commerciale sospetto e poi mantenere sempre il dente avvelenato verso il proponente, dimostrando di prendere la situazione di pancia e non con raziocinio, rischiando di perdere occasioni propizie e doversi mangiare il fegato e rodere le mani in seguito.
Con quest’ultima locuzione ho iniziato la serie che riguarda le nostre estremità superiori. Dal fornaio e dalla massaia prendiamo a prestito l’espressione avere le mani in pasta per dire che ci si occupa di qualcosa, finché non si abbiano le mani legate e si sia costretti a stare con le mani in mano o in tasca e a girarsi i pollici. Sull’esempio del pretore Pilato ci si lava le mani figurativamente per non assumersi delle responsabilità magari nel riprendere chi ha le mani lunghe sui beni altrui o ha le mani bucate nell’amministrare il gruzzolo accumulato con il talento delle mani d’oro da qualcun altro.
Ora le dita: toccare il cielo con un dito per indicare il successo conseguito, avere il pollice verde per dire che si è bravi nel giardinaggio, pollice verso per indicare parere sfavorevole, fissare lo sguardo sul dito e non alla luna per significare l’obiettivo sbagliato, per non parlare del muto mostrare il dito medio che spunta dalla mano chiusa!
Altrettanto abbondanti le espressioni riguardanti le estremità inferiori. Si può partir con il piede sbagliato, andarci con i piedi di piombo, metter piede in un luogo e restar sorpresi su due piedi. Una minaccia può prendere piede sicché per prudenza si richiede di stare sul piede di guerra, cioè all’erta perché non si dica che si son fatte le cose con i piedi o ci si è data la zappa sui piedi.
L’avaro ha il braccino corto; chi resiste alle difficoltà ha le spalle larghe o la pelle dura, non liscia come quella di un bambino. Le signore la vorrebbero di velluto e temono la pelle a buccia d’arancia. Chi è abile è detto in gamba mentre chi è trascurato prende le cose sottogamba e chi è riprovevole nel comportamento non è certo uno stinco di santo. Chi mangia con appetito è una buona forchetta e chi è un buongustaio ha il palato fine (anche se sappiamo bene che le papille gustative sono poste sulla lingua). Il curioso è un ficcanaso, il previdente ha l’occhio lungo, all’irascibile viene subito la mosca al naso, lo sfortunato resta con un pugno di mosche. Si fanno gli occhi dolci quando si vuole blandire qualcuno; al contrario, la lingua può essere avvelenata, tagliente e biforcuta e pronunciare parole di fuoco.
Chissà perché le ginocchia stanche fanno Giacomo Giacomo? Un’ipotesi ricollega il detto alla fallita rivolta antifeudale francese del XIV secolo (Per antonomasia il contadino era detto Jacque Bonhomme). Preferisco però riferirmi alla stanchezza dei pellegrini che andavano a Santiago di Compostela; quando avvistavano finalmente la
città ed il celebre santuario, mandavano esclamazioni esultanti a san Giacomo Apostolo.
Ma vogliamo trascurare la comune cicatrice circolare sul nostro ventre? Prima de’ L’ombelico del mondo di Jovanotti, già l’intramontabile Omero, nel primo libro dell’Odissea, aveva collocato là dov’è l’ombelico del mare, cioè lontanissimo da ogni costa conosciuta, l’isola Ogigia della ninfa Calipso che amorevolmente tratteneva Ulisse.
Spero di avervi suscitato un po’ di buon umore. Anche questa è una locuzione pertinente, perché ha origine dalla medicina antica, quando si riteneva che il nostro comportamento fosse influenzato da misteriosi umori (nel senso di liquidi) circolanti nel corpo umano.