PROFUMO DI RICORDI di Pietro Paolo Capriolo
Laboratorio di scienze della scuola XYZ. All’entrata della successiva scolaresca, gli alunni avvertono un aroma nell’aria che fa esclamare a più d’uno «Avete fatto lo zucchero filato?». Gli occhi indagano invano a scoprire la collocazione dell’apposita macchinetta dal vassoio rotante su fornelletto. Peccato! Niente effetto fieristico, ma uno stimolo ad affrontare l’argomento del senso dell’olfatto che, fra gli strumenti per percepire la realtà esterna, pare essere il più negletto fra le dotazioni sensoriali dell’essere umano.
Per la cronaca, s’era semplicemente prodotto zucchero a velo, partendo da un ettogrammo della forma più comune in commercio, detto “semolato” per la somiglianza granulare con i derivati dei cereali.
L’esperienza propedeutica viene ripetuta: in un capace frullatore dotato di motore robusto a diverse velocità, lo zucchero granulare viene frantumandosi in una bianchissima polverina che parzialmente fuoriesce in una nuvoletta profumata, subito evanescente, ma che si diffonde nell’aria rilasciando un persistente gradevole aroma.
Trattandosi di lezione scolastica, due considerazioni matematiche non si possono trascurare, senza però rovinare il lieto momento con formule del tipo: Volume = πr2h. La prima riguarda l’osservazione, semplicemente ad occhio, del volume su scala graduata del contenitore che è notevolmente mutato per la diversa occupazione dello spazio interno da parte dei granelli “grossi” di prima rispetto ai piccolissimi di poi. La seconda è sul peso lordo del contenitore posto sulla bilancia, prima e dopo, praticamente invariato, non disponendo di sofisticati strumenti di misurazione per avvertire la piccolissima dispersione della nuvoletta nell’aria. È cambiata la forma, non la sostanza nelle sue prerogative cromatica e dolcificante.
Ma perché vado parlando di questo momento scolastico? L’evocazione della significativa esperienza presso la bancarella dello zucchero filato è più che giustificata ed appunto propedeutica alla trattazione della percezione degli odori.
La frantumazione meccanica dovuta alle lame rotanti, che oltretutto agitano anche l’aria, provoca dispersione di molecole di zucchero in modo difforme dal suo riscaldamento e trasformazione in filamento da raccogliere con lo stecco in soffici e appiccicosi bioccoli bianchi, prima che caramellino in sostanza amarognola e marroncina.
Nell’aria circostante, al naso degli avventori presso il chiosco dello zucchero filato giunge, come nel nostro caso, un apporto di molecole di zucchero molto più intenso di quello percepito annusando semplicemente da sopra una zuccheriera.
L’homo sapiens da un bel po’ ha ridotto l’uso dell’olfatto come fonte di informazioni, prediligendo la vista e sostanzialmente distinguendo in due categorie gli odori:
piacevoli e sgradevoli. Di essere investito da feromoni sessuali quasi non si rende conto e l’uomo della nostra civiltà è preoccupato di non lasciare di sé traccia odorifera e di non dover subire effluvi puzzolenti da altre persone.
Ci è difficile seguire una traccia olfattiva -non siamo segugi!- a meno che non provenga intensamente da una fonte vicina, come una rosticceria, una panetteria, una pompa di benzina e, al limite del disgusto, anche da un letamaio in campagna. Ma quando individuiamo un aroma, la nostra memoria lo ricollega ad esperienze che emergono rapidamente, condizionando gli atteggiamenti. Un bimbo, all’odore di alcool denaturato impiegato per le pulizie in casa, piangeva preventivamente, perché lo collegava a quello percepito prima di un’iniezione subita. Una nonnina in RSA si commuoveva ripensando ai suoi figli piccoli dopo il bagnetto, se percepiva l’odore del borotalco.
Personalmente confesso di avere nostalgia della minestrina dell’asilo, non tanto per la gradevolezza del sapore, quanto piuttosto per il contesto felice e per la convivialità con gli amici commensali.
Trappole odorifere attirano insetti dannosi in camere della morte, evitandoci l’uso massiccio di pesticidi sulla frutta.
Un inganno famoso in cui proprio l’olfatto è un fattore determinante è quello in cui incappò il patriarca Isacco, ormai divenuto cieco ed incapace di riconoscere con certezza i due figli. Giacobbe, spalleggiato dalla madre Rebecca, indossando i vestiti impregnati dell’odore acre di sudore del fratello gemello Esaù dedito alla caccia, ottenne la benedizione del padre che tentennò sì alla voce dell’impostore, ma poi si affidò al naso e, sbagliando, estromesse Esaù dalla discendenza prioritaria di Abramo.
Sempre a proposito di questi fratelli, già era stato esperito dal secondogenito il tentativo di carpire all’altro la primogenitura con l’esca di una profumata pietanza di lenticchie. Giacobbe va a prepararla, guarda caso, proprio sulla strada di ritorno del cacciatore ed ancora lontano dall’accampamento: stanchezza ed acquolina in bocca indussero Esaù a cedergli quanto di più aveva di prezioso nella civiltà tribale di allora.
Un esempio meno lontano nel tempo? Ricordate nel film della Pixar del 2007 il temutissimo critico gastronomico Anton Ego che, assaggiando la Ratatouille (che è anche il titolo del film), rievoca ricordi felici della sua infanzia e scrive la più bella recensione che mai abbia avuto il ristorante di Gusteau – Linguini?
Gusto e olfatto sono intimamente correlati e la mancanza o il difetto della capacità di percepire gli odori spesso va a scapito della degustazione. Fra le conseguenze del Covid c’è stata anche la perdita o la diminuzione del senso dell’olfatto. Ne incorsero non soltanto le casalinghe nelle preparazioni culinarie domestiche, ma anche cuochi,
gastronomi e profumieri che dovettero sottoporsi a speciali corsi di riabilitazione sensoriale.
Se il profumo dei fiori attira insetti bottinatori di liquidi zuccherini, altri fiori (quelli dell’edera, ad esempio) attirano quegli altri che si nutrono di sostanze in decomposizione e le stesse carcasse di animali sono avvertite da lontano come fonte di cibo. La scienza forense si serve della presenza di insetti, uova e larve sui cadaveri per stabilire il momento della morte. Il personale delle agenzie di pompe funebri, non per nulla, stende un sottile velo sulle salme, proprio per tenere lontano mosche e parassiti; cosa che già possiamo constatare nel capolavoro scultoreo di Giuseppe Sanmartino del 1753 del Cristo velato.
L’evocazione di ricordi causata da odori non è solo finalizzata alla nutrizione, ma come negli esempi precedenti della temuta iniezione e del borotalco, può essere correlata a qualunque esperienza, lieta o triste che sia.
Sono nato e vissuto per i primi anni di vita in una casa dove al piano terreno c’era la bottega di un bravo falegname ed ho trotterellato fra i suoi calzoni e quelli dei garzoni pazientemente sopportato ed ammonito perché non mi facessi male con i loro utensili. Le essenze che si sprigionavano dalle varietà di legnami utilizzati impregnavano le mie narici, sotto l’azione della pialla o della sega. In un primo tempo ho giocato con lunghi trucioli di vario colore, facendone rotolini simili alle molle dei giocattoli o anelli e bracciali; successivamente mi sono costruito la spada dei templari e la scimitarra di Sandokan. Ancora oggi, occasionalmente lavorando il legno, non posso fare a meno di aspirarne l’aroma che esso emana, cercando di indovinare se si tratta di cirmolo, rovere, noce, ciliegio, robinia…
Restando legato a quell’ambiente, c’è un altro odore che riconoscerei sicuramente, ma ciò che lo emetterebbe è ormai soppiantato da altri prodotti chimico sintetici. Sì, è un cattivo odore, ma genuinamente ecologico. Si tratta dell’autentica colla di pesce. Intendiamoci, non quella che si usa adesso in cucina e pasticceria, cioè la trasparente raffinatissima gelatina in fogli o polvere che ancora si chiama così, ma è di derivazione suina. Quella della mia infanzia era marrone, dall’aspetto di contorte piastrelle, spesse un centimetro e puzzolentissime; veniva importata dall’oriente europeo e ricavata dalla pelle dello storione. Ce n’era un sacco di iuta sotto un tavolo nel magazzino ed i gatti della zia ci sonnecchiavano sopra, senza mai sognarsi lontanamente di lacerare il sacco per cibarsene. All’occorrenza il falegname staccava con le tenaglie da una di quelle lastre poche scaglie, le faceva cadere in un barattolino di metallo con il manico, dove il pennello dalle setole irrigidite nella colla rappresa stava ritto sull’attenti come un soldatino. Ci aggiungeva un po’ di acqua e sul fuoco di pochi trucioli la faceva sciogliere: quando il pennellino si inclinava, era segno che era pronta all’uso. Ora c’è il Vinavil che ha tutt’altro odore e non c’è bisogno di prepararlo al momento.
Ho accennato a ricordi di odori che evocano esperienze anche molto lontane, quasi una esumazione cerebrale. Questo è quanto avviene e può essere testimoniato, statisticamente catalogato e/o fatto emergere in una seduta ipnotica a scopo curativo.
C’è però un aspetto, forse tutto sentimentale (richiamato anche dal titolo) che si riferisce alle più belle esperienze di ciascuno che si rivivono soavemente: il profumo dei ricordi, appunto.