CIABÒT O CHATBOT? di Letizia Gariglio
Mio nonno aveva un ciabòt in fondo al cortile. Il casotto (ciabòt è parola della lingua piemontese), era il suo regno, dove lui imperava nel tempo libero con i suoi attrezzi, piegando legni e arcuando ferri. Lì curvava, tagliava, batteva, modellava i suoi metalli (principalmente rame e ferro), rendendoli malleabili. Inventava e forgiava oggetti utili, ma anche opere d’arte, non so quanto comprese dagli altri membri della famiglia: io li consideravo pura arte. Lì dentro di tanto in tanto, in sua assenza, mi introducevo furtiva – l’ingresso non era autorizzato, e per brevi momenti mi intrattenevo, attratta da fucina, incudine, martelli, pinze, tenaglie. Sognavo il momento in cui finalmente sarei stata ammessa ad apprendere.
Conservo i suoi attrezzi con rispetto e amore. Il ciabòt non esiste più. Il suo tempo si è concluso, così come si conclude il tempo delle vite, della vita. Non avrò più la possibilità di penetrare né in quello spazio, né nell’arte che lì si esercitava, se non nei ricordi carichi di rimpianto.
Ora sto per operare un’altra introduzione, accedendo a qualcosa che per ironia ha un suono molto simile al ciabòt, e forse mi consentirà di introdurmi da qualche parte, non so se per assonanza o per destino.
Ho di fronte il chatbot, o la chatbot (Zingarelli declina al maschile, Treccani al femminile), insomma uno di quei software che simulano le conversazioni umane, uno di quei dispositivi digitali che hanno lo scopo di interagire con noi (con me, proprio con me! ) come se fossero persone reali: insomma, una di quelle forme di AI, cioè di Intelligenza Artificiale, in grado di giocare con noi al gioco del dialogo. Disposto a simulare un comportamento umano, pur di appagarmi, è adesso pronto a offrimi attenzione, fondando le sue capacità sull’elaborazione del linguaggio naturale e sull’apprendimento automatico.
Il coso a cui sto per rivolgermi è in grado di generare risposte sulla base di un ampio substrato di addestramento che ha appreso da un vasto corpus di dati testuali, che è in grado di trasformare. Realizzato sulla base di 175 miliardi di parametri e di un corpus di testi provenienti da libri, articoli di giornale, pagine web, forum, documenti di vario genere, molti dei quali accademici, e svariate altre fonti di testi, il chatbot è ora pronto per dedicarsi a me.
So che devo essere attenta, so che il ciabòt… perdonate, il chatbot, ha fregato altri prima di me, fornendo nel dialogo risposte solo apparentemente plausibili, ma che in realtà sono frutto di allucinazioni: si chiamano proprio così.
Un esempio divertente di fregatura, e nello stesso tempo un fatto importante di allucinazioni dell’Intelligenza Artificiale generativa riguarda una caso discusso in tribunale negli USA. Una persona aveva citato in giudizio una compagnia aerea, dopo essere stato colpito in volo da un carrello di metallo. Gli avvocati dell’accusa presentarono un fascicolo contenente casi analoghi e condannati in precedenza da diversi Tribunali. Peccato che il fascicolo, redatto con tanta precisione, fosse un’allucinazione di ChatGPT. Che cosa era accaduto? Il solerte chatbot, per compiacere le richieste dei consultanti di trovare in giurisprudenza casi analoghi, pur di non lasciare insoddisfatti gli utenti, si era inventato tutto. Conclusione: multa di 5000 dollari per lo studio legale, che non aveva avuto cura di verificare. E avvocato negligente rovinato.
Non è che un esempio. Bisogna dire che la dubbiosità verso i chatbot serpeggia, eppure la maggior parte delle persone è incuriosita, almeno vuole provare la consultazione. Le risposte possibili saranno con ogni probabilità un impasto fra verità, invenzione, stupidaggini, luoghi comuni, spunti di saggezza e… quid di genialità. In ogni caso saranno risposte poco affidabili, tutte da verificare. Così è la nostra vita con i chatbot: non troppo diversa, almeno nell’attenzione necessaria, da quella della vita reale.
E la vita nel ciabòt com’era?
Mio nonno, sacro custode per così dire di cortile delle proprietà telluriche del ferro e del rame, esercitava la magia della sua attività, un po’ stregone e un po’ creatore: chissà se capace di metaforiche trasformazioni interiori, nel processo di trasformazione dei metalli. Certamente, almeno per me, qualche oggetto di famiglia rimasto rappresenta la continuità fra generazioni, sottolinea l’importanza del passato, e dona agli oggetti il significato simbolico di un’antica promessa, ancora capace di emanare la luce del suo creatore.
Il frutto del ciabòt rimane affidabile, simbolo di connessione, e richiamo costante alla forza e alla capacità dell’uomo.