IL PRESEPE IN VIAGGIO racconto di Letizia Gariglio
La ragazza si avvicinò al tavolo, sul quale avrebbe disteso, ad una ad una, tutte le statuine della collezione di famiglia. Suo padre andava fiero di quella meravigliosa collezione, che da alcuni anni si arricchiva, poiché aggiungevano ai pezzi già acquisiti altri meravigliosi manufatti, di pregiata fattura. Anche quest’anno erano stati ordinati al migliore artigiano di Napoli alcuni esemplari: un nuovo pastorello delle meraviglie, con la bocca spalancata per lo stupore che la nascita rituale di Gesù avrebbe provocato in lui, e un nuovo Benino.
Carlotta si chiedeva sempre se il pastorello delle meraviglie e il pastorello Benino, addormentato sul prato, fossero la stessa persona. Lei immaginava che Benino si fosse addormentato per poter sognare: nel sogno avrebbe potuto vedere quello che nella realtà non si vedeva mai: la visione del Bambino Gesù. Benino non si spaventava nel sogno, anzi, era così felice che voleva incontrare il Bambinello per davvero. E che, non esistono forse i miracoli? Così, dopo averlo sognato, si avvicinava alla grotta, e vedeva una luce così forte che rimaneva abbacinato; forse avrebbe voluto urlare, ma non ci riusciva, e rimaneva così, con la sua bocca spalancata.
Il nuovo pastorello delle meraviglie, in mano alla ragazza, era davvero meraviglioso, oltre a essere meravigliato.L’artigiano aveva fatto anche un nuovo pastore ubriaco. Quello a Carlotta non piaceva. Quando si fosse trattato di sistemarlo l’avrebbe tenuto lontano da Gesù. Fosse stato per lei non ce l’avrebbe neanche messo nella mangiatoia: via tutta quella volgarità, le facevano orrore gli uomini ubriachi, puzzolenti di vino, con la pancia gonfia.
«Perché dobbiamo proprio metterlo nel presepe?», aveva chiesto a suo padre.
«È la tradizione», era stata la risposta che non l’aveva soddisfatta.
Tradizione o no, io lo nasconderò in un angolo. Che nessuno lo veda, pensò. E che non ci sporchi tutta la scena, implorò dentro di sé. È capace di vomitare, quello!
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Tutto il proponimento stava in una notte stellata.
Quante lingue in origine parlassero le genti che seguivano la stella non lo sapeva nessuno di loro. Una speciale dignità li univa, nonostante ogni differenza di provenienza e abitudini, e sebbene fra loro qualcuno si muovesse con sussiego, non vi erano intrusi.
Se il mondo non appariva a tutti loro come luogo di armonia, in fondo ai cuori tuttavia albergava la certa speranza che il firmamento riservasse una promessa indiscutibile di gioia, che finalmente avrebbe dato forma ai destini di ciascuno.
Non conoscevano i calcoli complicati degli astronomi, né i tracciati delle loro mappe stellari, ma un disegno nascosto nell’anima guidava la rotta, rendendo sicuro il loro cammino.
Per quanto avessero cercato di mantenere il carico leggero, non mancavano masserizie e cesti con galline, otri imbottiti e pesanti abiti con cappucci stropicciati. Li seguivano le anonime greggi; loro stessi erano e si sentivano gregge e da quello stato di gregge la stella prometteva loro di distoglierli. Si sarebbero liberati da quello stato indistinto, impersonale, forse anche un po’ torbido, in cui le loro vite erano trascorse fino ad ora senza individualità.
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Adelaide toccò le orecchie dell’asino, accarezzandole. Poveretto, le faceva pena. Povero ciuccio, pensava accarezzando affettuosamente le orecchie della statuetta, che era appartenuta a sua madre Carlotta, perché ce l’hanno tutti con te? Non era forse entrato il Cristo in Gerusalemme su un’asina bianca, la domenica delle Palme? Già, ma come dimenticare sul libro di storia, nelle pagine degli Egizi, quella brutta testa d’asino che era la capoccia di Seth!
«Va beh, povero asinello mio», gli aveva detto l’anno passato «scusami se ti metto un passo indietro da Gesù, e metto il bue poco poco più avanti, così».
Quest’anno non si sentiva di dirgli più niente, però capiva che qualcuno ritenesse più importante il bue, che aiuta l’aratro a scavare.
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Nel cuore delle notte le statuette giacevano sulla grande tavola dove la famiglia stava apparecchiando il presepe, sulla carta increspata di colore giallo rossiccio, così somigliante a quella terra madre con la quale le piccole sculture erano state forgiate dalle mani degli artigiani. Si erano succedute le stagioni dall’inizio del loro esistere, e l’espirazione di alcune varietà di cadenze linguistiche e di dialetti avevano dolcemente solleticato le loro vesti. Generazione dopo generazione, interi zodiaci di tipi umani li avevano maneggiati: tutti, a quanto pareva, appartenevano a un comune albero genealogico, sebbene fosse difficile intravedere caratteristiche comuni: solo qualche lineamento poteva lasciar scorgere una linea genetica di continuità. Eppure loro , le statuine del presepe, credevano di tanto in tanto di riconoscere la cascatella argentina di una ristata, una somiglianza nel timbro della voce, la dolcezza di una mano.
Per alcuni, fra gli umani che li avevano maneggiati, avevano avuto decise preferenze, altri li avevano avuti pressoché in odio, poiché non era stato difficile decifrare in loro i segni di animi oscuri e di ambasce opprimenti. Di alcuni avevano invocato cure e protezione, altri avevano pregato per un po’ di gentilezza, di ognuno avevano temuto le ire, l’incompetenza e la malagrazia.
Era notte. In una notte come questa sarebbe nato il Salvatore. Ma non in una notte qualunque: nella notte più lunga e più buia dell’anno. Per questo loro dovevano aspettare che la preparazione fosse finita. Allora, la notte madre del firmamento, capace di correre i cieli avvolta in manto nero, trainata da neri cavalli, sarebbe stata percorsa da strani esseri, da figure tenebrose, forse da spettri e fantasmi, da presenze angoscianti. Così sempre accade nella notte più buia dell’anno, nelle notti più buie di tutte le vite.
E così anche loro avrebbe dovuto attendere. Avrebbero percepito attorno a loro i sentimenti degli uomini e delle donne che abitavano la casa, ne avrebbero compreso lo stato, avrebbero sentito gli animi vessati dalle paure, talvolta sospesi sull’abisso della solitudine interiore.
Ma quella notte, infine, avrebbe cacciato ogni timore, perché era stellata; era santa.
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Maria Vittoria proseguiva nell’allestimento del presepe, maneggiando con cura le piccole opere d’arte che passavano fra le sue mani. Era in uno dei salotti della casa, quello più piccolo, con le poltrone e i divani di velluti rossi, dove lei lavorava sul tavolo addossato al muro, nell’angolo fra i due grandi finestroni.
Aveva disposto sul tavolo piccoli sassolini e pezzettini di legno per ottenere il fondo. In mano teneva l’impagliatrice di sedie, statuina che la famiglia possedeva fin dal ‘700, le diede il suo posto accanto al bottaio, vicino le pose i piccoli cesti impagliati, che di recente il loro artigiano di fiducia aveva dovuto rifare: quelli originali, nonostante le cure, si erano praticamente sbriciolati.
La scenografia di fondo, con tutti i pastori in discesa dalle montagne, era già stata sistemata; ogni pastore, ogni pecorella, ogni agnello avevano già trovato collocazione. Ora stava sistemando la scenografia di pianura, dove si sarebbe ammirata la scena di città.
Tutta Napoli avrebbe trovato posto su quel tavolo: la città di oggi accanto a quella il cui tempo si era fermato, in epoche diverse, tra le mani di un artista artigiano, che l’aveva immortalata in preziose figure e in piccoli oggetti di vita quotidiana.
Questa era l’occasione in cui strati diversi di passato, di moderno e di contemporaneo si sarebbero conciliati e avrebbero pacificamente sostenuto lo stesso spettacolo di mangiatoia: oggi, attori di epoche diverse sarebbero confluiti sulla stessa scena, lì, su quel tavolo, amorevolmente guidati dall’attenta regia della quindicenneVittoria, dalle mani aggraziate.
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Tutti loro erano considerati pastori, anche quando rappresentavano mestieri diversi. Sistemati tra le pieghe delle stoffe o delle carte fra le quali erano stati adagiati per il resto dell’anno, attendevano la forma che per quell’anno sarebbe definitivamente stata loro impressa.
In passato era capitato che si fossero sentiti imperatori della scena, attori di prim’ordine, destinati alla stupefatta attenzione del pubblico, di cui avevano riscosso l’ammirazione, e anche quest’anno ogni astante, quando il presepe fosse terminato, si sarebbe mosso attorno con passi attutiti e visi protesi.
Anche in questo Natale i ponti, sistemati in bilico fra fragili sponde di ruscelli, si sarebbero barcamenati come ginnasti in equilibrio, mentre con un filo di nostalgia loro avrebbero ripensato alla passata sistemazione, quella dell’anno trascorso, che oggi appariva ai loro stessi occhi come opera di costruzione più solida e assai meno avventurosa. Ma non potevano agire: solo essere agiti.
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Nella notte ognuno di loro, ogni viaggiatore verso Betlemme, depositava a terra le proprie carabattole; i più disordinati le sparpagliavano attorno a sé. Il presepe, che di giorno si riassestava, riassumendo come poteva un senso di ordine, di notte lo perdeva del tutto. Forse erano gli uomini che vi giravano intorno, durante le ore del giorno, a fornire un senso a quel guazzabuglio; infatti erano loro che dicevano:
«Ecco, qui pascola questo gruppo di pecorelle», sistemandole proprio lì.
Poi però le lasciavano sole e di notte le pecorelle sporcavano dovunque, si spostavano belando, fuggivano al cospetto di lupi selvaggi (ma forse erano solo cani) che arrivavano mostrando i denti. Insomma, non si capiva più niente. Era persino capitato che arrivasse una famiglia di topolini, che aveva tentato di rosicchiare il prosciutto appeso, aveva bevuto l’acqua del laghetto e aveva scompigliato ogni stelo d’erba e di fiore. C’era da augurarsi che non avessero nidificato nella casa dell’impagliatore di sedie.
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Accadeva sempre, quando il presepe era finalmente pronto, che nel buio della notte inframmezzato da lance improvvise di luce, qualcuno fra loro si spaventasse per quelle presenze così inquietanti, dalle forme arrotondate e gobbute, con paramenti luccicanti come gonnellini di danzatrici, tintinnanti al movimento come scacciapensieri. Alti e strani animali giunti da oriente, si diceva, sembravano avanzare dondolando, mentre le frange e i ricami delle loro gobbe frusciavano nel buio. Portavano carichi di datteri, e frutti dolcissimi, e ricchezze inimmaginabili, profumavano di spezie e di foglie preziose, sporte di vini e elisir dolcissimi. O almeno, così si diceva: così le voci sussurravano al loro frusciante passaggio, condotto dagli uomini. Disdegnavano ogni altro personaggio, ondeggiando come fa la sabbia al vento del deserto: e da lì si diceva che provenissero.
Tutti loro li osservavano intimiditi e persino gli abili artigiani, abitualmente orgogliosi delle loro arti, rimanevano incantati ad osservare. Al confronto degli animali dondolanti del deserto sentivano che i loro ruoli si sminuivano.
Non si preoccupavano invece del possibile confronto gli storpi, i ciechi, i gobbi… tutte le forme meno fortunate del genere umano.
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Che cosa avrebbero scelto quell’anno gli abitanti della casa? Grotta o stalla? Nell’armentario della famiglia entrambe le collocazioni della nuova nascita erano già state sperimentate.
Dall’Alto Canavese ad un certo punto della storia della famiglia era giunta una grotta intagliata nel legno, che contendeva alla stalla il privilegio della scena. Le vacche avrebbero pascolato in un paesaggio montano, su uno sfondo invernale innevato, con gli alberi dalle bianche punte? Sarebbe stata tirata fuori anche la fontana con le stalattiti e le stalagmiti? Avrebbero rinunciato a sfoggiare i pastori di scuola napoletana, che pure si erano amplificati nel tempo in una meravigliosa mediterranea esuberanza figurativa?
Adesso lo scatolone era a terra, ai piedi del tavolo che sarebbe stato dedicato a loro, almeno per ventinove giorni. Lo stress del viaggio sarebbe finito solo quando a uno a uno fossero stati tutti sistemati sulla tavola: tutti, tranne uno. Lui si sarebbe fatto attendere ancora per qualche giorno. Era un’attesa stancante per ognuno di loro, che non si sentivano al completo senza di lui, ma alla fine anche l’ultimo piazzamento sarebbe stato completato.
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Nella notte spesso qualcuno di loro raccontava, pur non essendo sicuro di essere ascoltato: non tutti i discorsi erano conversazioni, avevano piuttosto il suono dei monologhi. Vi erano nomi che venivano pronunciati più spesso: padre, madre, sorella, fratello, amico, amore, destino… Ognuno di quelli che di volta in volta parlavano aveva sprazzi di ricordi, e si gettava a farne il proprio racconto. Per ognuno di essi c’era un amico, una sorella, un amore grande o piccolo, felice o infelice, si dipanavano destini… Tutti iniziavano a chiedersi come mai questi nomi tornassero in ogni racconto. Ascoltavano se stessi, ascoltavano gli altri personaggi del presepe, e infine avevano l’impressione che ogni storia si confondesse con l’altra; diventava difficile distinguere fra loro i gradi di parentela, gli esiti degli amori, i destini degli uni e degli altri. Non sapevano più qual era il racconto che avevano narrato e quello che avevano ascoltato; loro stessi credevano di essere figli, e amanti, e madri, e pescatori, e cacciatori, e agnelli, e soldati romani… a turno avevano preso posto al centro della scena, poi avevano recitato parti gregarie, poi erano stati semplice massa di popolo. E ora, chi era di scena?
Qualcuno iniziava a chiedersi perché avesse intrapreso quel viaggio, iniziava a pensare che il viaggio fosse interminabile, troppo disagevole. I marinai che erano giunti dalla costa, abituati a viaggiare solo per mare, erano sfiniti dal lungo cammino. Si domandavano se ci fosse un futuro. Impossibilitati, su terra, a tracciare rotte e a progettare approdi, si erano nel frattempo dimenticati per quale ragione si fossero incamminati e quale sogno li avesse attratti lì.
Ma noi siamo davvero viaggiatori alla volta della Stella? O non siamo che statuine?, alcuni si chiedevano; e la confusione serpeggiava. Qual è il nostro ruolo? Quale il nostro destino? Ma ormai il gioco si era portato troppo avanti, e sebbene comprendessero d’essere diversi dagli umani che li maneggiavano, si erano profondamente identificati nei cercatori di salvezza.
Non avrebbero riportato a casa stoffe preziose né carichi di spezie, si dicevano i marinai, e dunque, che cosa erano venuti a fare? Tuttavia il ricordo si stemperava, nella notte addirittura si raggelava, e loro volgevano gli occhi intorno, incapaci di trarre, da ciò che li circondava, i segni di quella cosa che li aveva condotti fino lì.
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C’era tutta la famiglia attorno al tavolo. Qualcuno estraeva gli oggetti, un altro scartava, un terzo proponeva una collocazione per questo o quello, un altro ancora voleva occuparsi prima del paesaggio, dello sfondo, addirittura della forma: insomma, un gran rumore, un vociare sconnesso, un accalorarsi disordinato e improduttivo. La cosa cominciava a destare qualche preoccupazione. Queste persone si sarebbero mai date una regolata?
Loro passavano di mano in mano: una era appiccicosa e sapeva di cioccolata, l’altra era ruvida e un po’ callosa, quella era maldestra e li induceva a temere per la loro stessa vita. Tranquilli certo non potevano stare.
Speriamo si decidano, prima o poi, pensava ciascuno di loro nell’attesa pericolosa.
Qualcuno prese la direzione della baracca:
«Prima dobbiamo decidere se vogliamo farlo in pianura o in collina».
E le sue parole misero tutti a tacere.
Per qualche attimo. Perché poi tutti si rigettarono nella mischia verbale, e si scatenò l’inferno.
Il problema era che, mentre ognuno si accalorava nel sostenere la propria opinione, manovravano impugnandoli e brandendoli come spade. Tutti fendevano nell’aria certe affermazioni che meritavano di essere sottolineate e accompagnate da traiettorie diversificate. Loro, in preda delle manacce di tutto il gruppo,servivano a tutto, a dire su e giù, di qua e di là, sopra e sotto, ma anche a sinistra, a destra, insomma ogni persona presente disegnava il proprio paesaggio mentale con uno di loro in ogni mano. Più le mappe dei loro pensieri si presentavano complicate, più le diverse braccia s’incrociavano, si affrontavano in assalti ripetuti, si muovevano in fendenti che facevano tremare il cuore. Era difficile credere che stessero solo parlando: sembrava piuttosto un incontro all’arma bianca privo di regole. Ma quando li avrebbero messi giù?
Infine qualcuno intervenne, come deus ex machina:
«Parliamone».
Parliamone? E finora che cosa avevano fatto?
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Ora un intero villaggio si accalcava nella pianura, cui giungevano, per lo più a piedi, lunghe file di gente del popolo, attratta dalla stella che li aveva guidati. Stavano giungendo, anche più rare, carovane a cavallo e i pochi stranissimi cammelli. Le pastore preparavano l’accampamento per la notte, e capitava che sostasseso presso qualche bottega, insieme a qualche rara cortigiana, a ciechi che procedevano tastando il terreno col bastone, a vecchi barbuti dalla schiena piegata, a giovani fanciulle ridenti.
La notte era fredda, molto fredda. Le figure si rannicchiavano, cercando un posto alla meglio riparato, aspettando l’alba. Qualcuno fra loro si chiedeva se questo viaggio avrebbe avuto un ritorno o se tutto, al suo termine presso la grotta con il Bambino, sarebbe stato compiuto. Ma come fra gli umani, ecco che i pensieri più alti, anche presso le piccole sculture di terra, venivano spostati un po’ più indietro e nei sogni avanzavano sguardi e sfioramenti, e amplessi senza parole…
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I Maghi già scalpitavano nello scatolone: anche lì volevano saperla lunga! Fremevano in mezzo alle statuine degli araldi, dei palafrenieri, dei servi, dei musici, delle cortigiane e dei paggi. Erano costretti ad attendere in compagnia degli animali, delle bardature per i cavalli, dei finimenti di pregio, insieme con i cammelli drappeggiati come odalische con veli.
Al fondo dello scatolone si affollavano in gran disordine i poveri, i diseredati, gli umili, i popolani in vesti cenciose.
Poldo si avvicinò a annusare per bene la scatola: facciata superiore e quattro lati vennero ispezionati con cura; quando, dopo qualche minuto, fece un tentativo indeciso d’alzare la zampa posteriore destra qualcuno gli mollò un ceffone sulla chiappa dall’altra parte. Colpa sua: aveva tergiversato troppo. Un po’ disorientato dalla manovra Poldo desistette; andò in cucina, dove il profumino di ragù prometteva sviluppi più interessanti.
Nei pressi dello scatolone lo sostituì Melania, più attratta del visitatore che l’aveva preceduta al fiocco che legava la scatola. Frastornata dal campanello che aveva appena suonato Melania andò a rifugiarsi sotto una poltrona, non tanto per timidezza, ma perché lei era un tipo riflessivo: le piaceva studiare le situazioni con calma. Naturalmente si riprometteva di tornare a analizzare l’oggetto di cartone che, con lieve odore di muffa, spadroneggiava sul suo pavimento, dove abitualmente si rotolava e eseguiva una serie complicata di esercizi ginnici.
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Nella notte sognavano la loro sistemazione coreografica definitiva (definitiva almeno per quell’anno). Erano pronti per ricevere l’impronta che qualcuno avrebbe loro dato: si sarebbero trovati inseriti in nuovi gruppi di persone, in famiglie diverse, per somiglianza o per contrasto? Ognuno di loro era pronto, come lo erano gli umani, a riconoscersi in quel presepe, o almeno a riconoscere alcune parti di sé.
Ciascuno pregava la notte:
«Eccomi, signora Notte, signora del Tempo, ci sono anch’io. Se con questa nuova nascita si avvierà un nuovo progetto di vita, ci sono anch’io. Anch’io faccio parte di un destino di cui questo presepe è testimone; desidero che anche per me si dipani una nuova vita. Anche per me, feconda Notte, sarai crogiolo di nuovi germi di vita, nuove energie, nuova crescita.
«Ecco, qui mi raccolgo: voglio meditare, voglio riflettere, voglio incubare. Ascolto il rumore del silenzio e le mie antenne vibrano».
E nella notte i pensieri e le preghiere delle statuine si sovrapponevano a quelle degli uomini.
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Caterina stava sistemando il pittoresco mondo dei Magi, così come aveva preso forma nell’elaborazione fantasiosa dei secoli. Apprezzava tutta la coreografia regale che le statuette portavano con sé: il gran sfoggio di spade, lo scintillio delle scimitarre, il luccichio degli ori e degli argenti, il brillio dei vetri colorati, fatti a somiglianza delle pietre preziose. Aveva sempre preferito quella parte del presepe a quella dei semplici pastori. Le era sempre piaciuta la boria di quelle statuette, che si erano aggiunte nel tempo a quelle della collezione napoletana della sua avola Carlotta. Tutto ciò che agli artigiani doveva essere sembrato orientale vi era stato infilato, insieme con straordinarie vesti e copricapi. E quanto le piaceva il corteo di accompagnamento, annunciato dagli araldi, composto dai servitori, dai palafrenieri, dai soldati, cui seguivano, meno appropriatamente, ma con altrettanta coloritura, le odalische e le cortigiane. E gli animali? I più belli del presepe! Elefanti e cammelli, più modeste scimmie, e i pappagalli sgargianti dalle lucide piume… e poi la fanfara con le trombe, i cimbali e i corni. Che senso di potenza e di regalità!
Sua sorella invece preferiva gli animali domestici, sistemava sempre lei le oche e gli agnelli!
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Sullo stesso suolo di carta arruffata ora si trovavano assestate parti diverse; dove si affacciava ieri il muretto del pozzo profondo, oggi aveva trascinato la propria sedia il bottegaio, col suo armamentario di salumi e prosciutti, appesi in alto sul banchetto dove gli avventori si potevano affacciare. Quell’improvviso cambio di uso avrebbe potuto confondere chiunque, scontornava e rendeva imprecisi i confini delle loro esistenze, inducendoli talvolta a una crisi, che rendeva difficile riconoscere il senso della loro vita.
Che sono venuto a fare qui? si domandavano i vari pezzi. Qual è il senso di questa mia vita? Qualche ricordo si illuminava per brevi attimi come un flash, e poi… via, era già lontano. Solo loro rimanevano, con tante domande racchiuse nella mente e nel cuore.
Ma ad un certo punto, ecco… oro incenso e mirra… avanzavano i Magi portando i loro doni… la risposta era lì?
Diciamo sempre le tre parole così, in questo ordine. Sempre tre, ancora tre…oro, incenso e mirra…
Era enorme la stella, quando la scorsero. Tanto l’avevano attesa, fiduciosi nella profezia.
Anche gli Astrologi l’avevano attesa. Eccoli, i Magi. Forgiati nella fucina inconscia di tutti i miti e di tutte le storie del mondo, eccoli; all’orizzonte si profilava la carovana e loro erano lì, provenienti dalle tre direzioni del mondo per vivere insieme la simbolica esperienza. Giungevano da luoghi mitici, forse dalle Tre Indie: Melchiorre, grondante oro, dalla fertile terra di Arabia e di Nubia;Baldassarre dalla terra dell’incenso e delle spezie; Gasparre dal regno di mirra.
«Dove si trova il re dei Giudei appena nato?», chiesero.
Li precedeva la stella.
*
C’erano discorsi pubblici e discorsi segreti, fra di loro. In questo si sentivano tanto somiglianti a quegli umani che li avevano creati. C’erano desideri dichiarati e desideri muti, tenuti nel segreto di ciascuno. C’erano paure non dette che serpeggiavano, e ansie interminabili per le proprie vite e i propri destini. E sebbene ciascuno di loro conoscesse la caducità della propria esistenza, non potevano rinunciare né ai desideri né alle paure. Era come se la terra di cui erano fatti avesse impresso nel loro petto, insieme alla pesantezza della materia, questo aereo frullo d’ali, un anelito, un anelito… verso qualcosa di più alto, un’unità più estesa, più grande, vibrante d’amore. Non è che mancasse loro il filo del raziocinio, in grado di dare regole alla loro vita, non è che mancassero di prospettive realistiche, però… però…
Oro, incenso e mirra, riflettevano.
Alla natura mortale dell’uomo si addice la mirra; con la resina anche gli Egizi mummificavano i corpi e poi, dalla pianta della mirra veniva l’antidoto contro il morso dei serpenti. Ci voleva la mirra per proteggere dalla morte.
Allo spirito si addiceva l’incenso che, tra fumo e profumo, sapeva innalzare le preghiere verso il cielo.
Al re si addiceva l’oro, perché la ricchezza spirituale non può che prepararsi con quella materiale.
«Abbiamo seguito la stella che è sorta. Siamo venuti per adorarlo», dissero i Magi.
Non si sa di quale stella si trattasse, ma non era una stella qualunque. Era luce guida e messaggera di luce, capace di orientare e tracciare la via. Anche quella dell’anima…
*
Si stavano avvicinando alla meta. I più decisi fra loro guidavano la carovana, che si era allungata come una biscia dai molti colori, ma dove i terrigni toni della polvere prevalevano su ogni altro. Davanti camminavano coloro la cui fede era più forte, li seguivano quelli che dopo tanto camminare erano divenuti incerti; a una certa distanza si raggruppavano in appendice gli storpi. La carovana aveva viaggiato chiassosa, di tanto in tanto si era levato un canto che aveva accompagnato la marcia, nel tintinnare delle masserizie, che nel frattempo, consumandosi, erano diminuite. Si erano formati lunghi tratti di silenzio e ora il serpente era ammutolito e i respiri si erano sincronizzati; i movimenti si erano fatti più lenti.
Abituati al regolare procedere nel deserto, quando scivolavano con i piedi sulla sabbia infuocata, alcuni fra loro, magri e scattanti, abituati alla fatica e al sacrificio del viaggio, avanzavano ora senza concedere soste, né a se stessi né alla biscia in movimento che si srotolava dietro di loro, non già perché non avessero bisogno di riposo, ma piuttosto perché non potevano permettersi comportamenti inconcludenti, che avrebbero portato a ritardare l’arrivo. Camminando, ora alcuni di loro lasciavano ciondolare fra le mani i bracieri, su cui stava bollendo l’acqua per la tisana che li avrebbe dissetati. L’avrebbero preparata e bevuta senza fermarsi.
Poi… ecco, in piedi si erano bloccati, di colpo, con gli occhi in alto, verso la stella. Ora la si poteva toccare con le mani.
La stella indicava una grotta, un buio riparo, e da lì sembrava provenire una nuova luce: luce dal buio. Il grande anelito alla luce che ciascuno di loro aveva provato, ecco, si realizzava. Si erano allineati in lunghe file serpentine per raggiungere quel luogo, avevano lunghissimamente camminato, avevano sostato solo nelle notti, accendendo focolari domestici. Con piccoli fuochi avevano alimentato il grande fuoco del desiderio, attenti, vigili per quanto possibile a compiere gli sforzi necessari affinché rimanesse desto il lume delle loro coscienze. Volevano rinascere.
Con i fiati sospesi si avvicinarono. Sì, tutti, tutti volevano rinascere.
Nella grotta già stavano i Maghi: Melchiorre, vecchio canuto, porgeva inginocchiato la propria offerta di oro; Baldassarre, adulto virile di pelle scura, offriva incenso; il più giovane, Gasparre, adolescente ancora imberbe, donava la mirra.
Tutti, tutti, tutti volevano rinascere.