LE CITTÀ INVIVIBILI di Letizia Gariglio
Calvino scriveva che le sue «città invisibili» nascevano come un sogno dalle città invivibili, eppure al suo Marco Polo, protagonista insieme all’imperatore Kublai Kan dell’opera, interessava «scoprire la ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nelle città», al di là della fragilità dei sistemi/città e delle loro crisi.
Che oggi nelle città (non solo nelle megalopoli), si viva male, è un dato incontestabile, sia che la vita si svolga proprio nel cuore della città, come nell’esteso suburbio. Lo spazio suburbano è il risultato di un processo quasi canceroso di colonizzazione urbana, di una presa degli spazi vitali che attorniano la città: una sorta di edificazione della campagna in progressiva decadenza, con la presenza, in alcune città, di baraccopoli in perpetuo disagio sociale.
A proposito della città calviniana di Cecilia, Polo riferisce che il Gran Kan lo rimprovera perché non gli parla mai dello spazio che si estende tra una città e l’altra, non gli dice «se lo coprano mari, campi di segale, foreste di larici, paludi». Allora Polo gli risponde con un racconto e gli narra dell’incontro con un capraio, un pastore in transumanza, che conosceva tutti i nomi dei pascoli ma non sapeva riconoscere le città. Polo ammette che per lui è l’esatto contrario. Passano molti anni e i due si incontrano nuovamente. Il capraio conduce poche capre spelacchiate, ridotte a pelle e ossa, in luogo del suo gregge fiorente. Si trovano entrambi nella città di Cecilia, e non sanno come ci sono arrivati, giacché provenivano da città lontane: in pratica la campagna fra le città distanti è sparita. Infatti il capraio conclude: «Qui una volta doveva esserci il Prato della Salvia Bassa. Le mie capre riconoscono le erbe dello spartitraffico».
Così, quando in Le città invisibili arrivi a Pentesilea «sono ore che avanzi e non ti è chiaro se sei già in mezzo alla città o se sei ancora fuori». Pentesilea «si spande per miglia intorno in una zuppa di città diluita nella pianura». In buona sostanza i margini della città non esistono, si susseguono i sobborghi, le aree dismesse, i cimiteri, i mattatoi: dove esattamente Pentesilea inizi e finisca non lo sa più nessuno e Pentesilea nella notte «è solo periferia di se stessa», una sorta di limbo continuo senza definizione di entrate o di uscite.
Qualche volta il degrado delle nostre città nel suo complesso è fortemente avvertibile: traffico scatenato e caotico, eccessiva velocità dei mezzi, inefficienze dei mezzi pubblici, mancanza di verde, mancanza di spazi pubblici, inquinamento, rumorosità, pericoli di ogni genere compresa la criminalità, e rifiuti.
Nella Leonia di Calvino ogni mattina « sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia di ieri aspettano il carro dello spazzaturaio». Infatti la ricchezza di questa città si misura dalle cose che ogni giorno vengono scaricate come spazzatura. «Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede». Certo è che «una fortezza di rimasugli indistruttibili circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne». Verso il pattume di Leonia tuttavia avanzano inesorabilmente gli immondezzai di altre città, che a loro volta tentano di respingere lontano da sé le proprie montagne di rifiuti.
Non è un’immagine troppo lontana dalla nostra realtà.
Le promesse medievali sono ormai completamente negate (mi riferisco al motto medievale “la città rende liberi dopo un anno e un giorno”, motto che valeva per i servi della gleba fuggiti). Abbiamo superato in peggio le descrizioni di Musil attorno agli anni ’30 del Novecento:« la metropoli è costituita da irregolarità … da collisioni… da punti di silenzio abissali, da rotaie e terre vergini, da un gran battito ritmico e dall’eterno disaccordo e sconvolgimento di tutti i ritmi».
Oggi si fa un gran parlare di sostenibilità della città. L’Agenda 2030 dell’ONU dichiara all’obiettivo 11 che occorre rendere le città e gli insediamenti umani sicuri, inclusivi, resilienti e sostenibili: in una frase almeno tre aggettivi che personalmente detesto, per l’abuso che se ne fa. Per attribuire agli insediamenti urbani le qualità indicate si dice, nel documento, che entro il 2030 dovranno essere realizzati: accesso ad alloggi adeguati per tutti; riqualificazione dei quartieri poveri; sistema di trasporti sicuro, in particolare quello pubblico; riduzione dell’impatto ambientale negativo, con attenzione ad aria e rifiuti; realizzazione degli spazi verdi.
Uhauuuh: detto, fatto.
O no?
Un po’ distratta dal nervosismo provocatomi dagli aggettivi usati non so dare risposte. Resiliente va bene per tutto, dovrebbe mettere d’accordo tutti, viene propinato in ogni occasione e offerto come tazzina di caffè: per il fatto che è usato a proposito e a sproposito ci si dimentica del suo valore reale, in cui qualcosa si mostra capace di autoripararsi. Sostenibile ha ormai preso il significato di compatibile con le risorse ambientali: ha la stessa funzione che ebbe nella seconda metà del ‘900 l’aspirina: buona per curare qualunque cosa (adesso démodé). Entrambi i due aggettivi precedenti vengono considerati molto fighi e sono spesso usati in modo intercambiabile con quella fluidità che oggi piace tanto.
Ma ci vogliono almeno altre due parole per completare il quadro degli stereotipi: circolare (riferito all’economia) e inclusivo.
Non si discute certamente l’opportunità di rallentare lo spreco di risorse naturali, ridurre i rifiuti, contribuire a rigenerare i sistemi naturali; ma c’è da dire che l’economia circolare fa tanto bene soprattutto alle aziende (e ai loro profitti) quando puntano su riciclo e riuso.
L’inclusività viene declinata in molte maniere, a seconda che ci si riferisca a obiettivi educativi, didattici oppure economici e sociali. Se applichiamo il concetto alla città abbiamo l’obiettivo di risolvere i problemi di diseguaglianza, o di sovraffollamento, o di degrado: ci dovrebbe essere una certa equità sociale, e una simmetrica integrità dell’ambiente; dovrebbero funzionare in modo attivo delle politiche finalizzate alla diminuzione (non parliamo nemmeno di risoluzione) delle diseguaglianze sociali; ci vorrebbero investimenti per ridurre l’emarginazione e il degrado sociale. Nobili principi cui rispondono nobili obiettivi, senza la realizzazione dei quali non può esistere giustizia ambientale (se viene a mancare quella sociale). Che cosa fare come semplici cittadini? Certamente spingere per garantire l’abbattimento di barriere, in modo da includere tutti nel diritto agli spazi e ai contenuti, ma, in modo più diretto, lavorare affinché gli incontri fra persone siano possibili, uguali nella sostanza, non nella forma: in questo senso la fragilità va senz’altro difesa, affinché l’unicità degli esseri umani possa trovare espressione.
Mancasse nelle nostre città qualunque forma di inclusione si finirebbe come in Cloe, definita da Calvino grande città in cui le persone vivono senza conoscersi, in cui è impossible qualunque incontro, dove «nessuno saluta nessuno, gli sguardi si incrociano per un secondo e poi si sfuggono, cercano altri sguardi, non si fermano», così mai fra le persone in Cloe corre una parola né ci si sfiora con un dito. La possibilità di comunicazione non è che sogno: è la città dell’esclusione per eccellenza, un’esclusione che riguarda tutti, senza differenze di alcun genere. Si potrebbe dire un’esclusione inclusiva.
Come sarà la città del futuro? Noi sappiamo che sono in corso alcuni progetti di 5-minute city o città di 15 minuti basati su un’idea non recentissima, del 2016, di un urbanista franco colombiano di nome Carlos Moreno, docente di urbanistica alla Sorbona di Parigi; questo concetto della città di 15 minuti è stata ripresa in seguito da Anne Hidalgo, sindaco di Parigi: è il modello di una città in cui tutti servizi dovrebbero essere accessibili a chiunque la abiti in un tempo massimo di 15 minuti di distanza dalla propria abitazione, calcolati camminando a piedi oppure percorrendoli in bicicletta.
Fa parte di del più ampio progetto delle smart-city, le città intelligenti. Dove intelligenti significa massivamente digitalizzate. Si tratta di digitalizzre mezzi di trasporto, automezzi e non solo: lo scopo ultimo è quello di realizzare, attraverso i mezzi, il tracciamento delle persone. Il traffico nelle città del futuro sarà via via sempre maggiormente ristretto, limitato, scoraggiato. Per ottenere questo risultato saranno ampliate le limitazioni già vigenti oggi; per esempio attraverso i parcheggi. Già adesso ci hanno abituati a usare parcheggi che considerano la targa del mezzo richiedente il servizio, in modo da poter escludere le auto o gli altri mezzi che non rispondono alle caratteristiche richieste per la viabilità di quella zona. Ma saranno previste naturalmente anche delle misure restrittive per l’attraversamento delle città: sarà senz’altro più difficile il passaggio da una zona all’altra, da un quartiere all’altro. In questo senso esiste già la l’esperienza della città di Oxford in cui l’area urbana è stata divisa in sei zone o distretti ed è stata data la possibilità ad ogni veicolo, posseduto dei residenti, di attuare un attraversamento di zone fino a un massimo di 100 passaggi, dopodiché vengono erogate delle sanzioni amministrative. Superato il limite massimo delle 100 possibilità necessariamente bisogna ricorrere ai mezzi pubblici oppure occorre attuare dei percorsi molto più complicati, con percorrenza molto più lunga. Inutile aggiungere che le auto sono controllate da telecamere. A Oxford ci sono già state moltissime proteste popolari nei confronti di questa sperimentazione che peraltro va avanti, e ciò nonostante Oxford sia praticamente una città università, dove è molto più facile attuare una sperimentazione di questo genere perché gli studenti sono per lo più abituati a circolare senza automobili personali Inutile dire che l’obiettivo ultimo è appunto lo scoraggiamento del possesso delle autovetture private e l’incentivazione di una mobilità apparentemente leggera, cioè a piedi o in bicicletta. Con i progetti 5 minute city la privatizzazione delle auto diminuirà sempre di più. In tutto questo ovviamente ci sono dei rischi, uno dei quali è che si vadano a formare delle zone, diciamo così, particolarmente felici, contrapposte ad altre problematiche: sostanzialmente ci saranno delle zone centrali benestanti, ancora più separate di quanto non siano oggi dalle zone di periferia.
Naturalmente tutte queste iniziative sono propagandate in chiave green: virtuoso è chi le appoggia, viziato chi si oppone.
Ancora una volta un’idea di per sé positiva, quella di una città più umana, con servizi pubblici fondamentali, con soddisfacimento dei bisogni a pochi metri da casa, con aree verdi, parchi, riduzione dell’inquinamento, viene declinata in chiave dispotica.
In questi giorni abbiamo vissuto nel nord e centro Italia piogge, piene di fiumi e torrenti, corsi d’acqua sull’orlo del tracollo, esondazioni, centinaia di case e famiglie senza acqua potabile e senza luce, scuole chiuse in alcune province, morti, feriti, dispersi, allagamenti di strade e edifici pubblici essenziali, come gli ospedali, sanità al tracollo nelle località colpite, chiusure di strade e autostrade: tutti segni di fallimento dello Stato. Ma la tutela del territorio non è obiettivo dell’Unione Europea presente nel PNRR. Infatti il primo obiettivo indicato nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è la Digitalizzaione, Innovazione, Competitività, Cultura. Il secondo: Rivoluzione Verde e Transizione Ecologica. Il terzo: Infrastrutture per una Mobilità Sostenibile. Il quarto: Istruzione e ricerca. Il quinto: Inclusione e Coesione. Il sesto: Salute. I fiumi, vicini o lontani da abitazioni e città, sono liberi di continuare a esondare, l’ha detto l’Europa, tanto per parafrase un intercalare ormai comune.
Chiese a Marco Kublai: «Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quali futuri ci spingono i venti propizi».
E Polo al gran Kan: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui…»