PAROLE (VARIAZIONI) di Grazia Valente
1. Il disordine delle parole
Le parole hanno un loro ordine? Oppure hanno solo l’ordine che noi diamo loro? A volte, noi che scriviamo, abbiamo l’impressione che le parole si dispongano in un certo modo sul foglio in maniera tale che verrebbe da dire: hanno trovato il loro posto. Oppure si sente dire, dopo aver concluso l’estensione di un’opera, che “si è scritta da sola”, quasi che il nostro apporto di scrittori fosse un elemento estraneo o comunque secondario alla sua stesura, un mero strumento di qualche impulso di cui ignoriamo la provenienza.
Il disordine delle parole rispecchia forse il disordine del pensiero? Oppure il disordine del pensiero, come parte integrante del cervello umano, non costituisce un vero disordine, ma un ordine altro, diverso? Il cervello umano non è conformato per l’ordine, quale noi lo intendiamo, ma si dispone in modo logico e razionale soltanto dopo un lungo allenamento? La parola può essere neutra, asettica, priva di emozioni? E, in tal caso, questa parola spoglia del substrato emotivo, può ancora essere definita come parte del linguaggio? Se noi parliamo ma gli altri non ci capiscono – non capiscono il senso profondo del nostro discorso – di chi è la colpa, nostra (delle parole che abbiamo usato) oppure di chi ci ascolta ? E’ così importante la parola, per comunicare, oppure possiamo rivolgerci ad altre modalità comunicative, come ad esempio il gesto, lo sguardo, in certi casi perfino il silenzio? Perché l’essere umano avverte questo irrefrenabile bisogno di parlare, al punto che il silenzio viene spesso adottato soltanto se imposto? La parola non serve in realtà per comunicare con gli altri ma per esprimere se stessi al massimo grado, per imporsi sugli altri e sull’ambiente circostante? Tacere è un’arte, come sostiene l’abate Dinouart nel suo libro “L’arte di tacere”? Perché, se restiamo in silenzio troppo a lungo, veniamo attraversati dalla tristezza? E perché l’essere umano fugge dalla tristezza, come dal demonio? Forse perché la tristezza ha in sé qualcosa di distruttivo? Oppure perché fa affiorare qualche verità che nascondiamo soprattutto a noi stessi? Quindi viene maggiormente ricercata la spensieratezza, che porta all’oblio? Alla fine, il disordine delle parole costituisce la nostra salvezza, nella misura in cui ci allontana dal pensiero razionale, portatore di verità, spesso scomode?
“Non aspettarti nessuna risposta, oltre la tua”. (B. Brecht)
2. Caos
Il caos nel quale siamo immersi è probabilmente una condizione connaturata all’uomo o, meglio, all’umanità. L’essere umano è disordine, concentrato di pulsioni e, in un certo senso, di ossessioni. La mente umana ne è in balia, non trova pace se non in anestetici eventi esterni ai quali si abbandona in modo infantilmente spensierato. Tutto è utile, se permette di non pensare. Ma da che cosa deriva questa fuga dal pensiero? Di che cosa è portatore il pensiero, al punto che si fa qualsiasi cosa pur di evitarlo? Siamo forse più felici, quando ci asteniamo dal pensare? E poi, pensare a che cosa? Fuggendo dall’attività del pensare fuggiamo dalla realtà? E la realtà, sia la nostra personale realtà sia quella che ci circonda, sono da evitare come la peste? Fuggendo dalla realtà cerchiamo di sfuggire ai problemi che tale realtà ci presenta? Ma i problemi se non li si risolve peggiorano, non spariscono. Allora all’essere umano converrebbe affrontarli una volta per tutte per poi abbandonarsi alla felicità che deriva, anziché dal non pensare a quei problemi, dal fatto di averli risolti, sia pure momentaneamente dal momento che, lo sappiamo bene, molto presto altri problemi si presenteranno e sarà inutile cercare vie di fuga, esse non potranno che essere provvisorie.
Dobbiamo rassegnarci: il caos è il nostro elemento naturale e non esiste parola, linguaggio, che possa raccontarlo.