PRANZO DI NATALE di Letizia Gariglio
Quale novella Babette mi accingo a progettare il pranzo di Natale, che preparerò personalmente. Non ho preclusioni per cibi o preparazioni particolari, a parte l’incapacità di preparare piatti difficili.
Come antipasto desidero presentare a tavola del buon salmone, sebbene da tempo abbia smesso di essere un lusso natalizio, anche grazie alla presenza massiccia di allevamenti industriali dove i salmoni prosperano come polli. Allo stesso modo dei pennuti devono rendere economicamente al massimo, perciò nuotano allegramente in vasconi, impastoiandosi con la melma delle loro deiezioni liquide e solide, che nutrono nella brodaglia acquatica una massa di batteri e agenti patogeni di vario genere, che naturalmente vanno a nutrire i salmoni che poi ci nutrono, spesso in forma cruda. Naturalmente gli acquacultori si preoccupano di ciò, che potrebbe rendere il loro prodotto meno appetibile e, mentre i salmoni sguazzano cercando di salvarsi la pelle, loro gettano a profusione medicine e antiparassitari, versando insieme massicce dosi di organoclurati (DDT), che finiranno anch’essi con il nutrirci nel nostro pranzo di Natale e non solo.
Non potrà mancare, secondo la tradizione italiana, un bel piatto di pasta, scelta ovviamente fra quelle biologiche. Sono ormai diventata un’attenta lettrice di etichette: applico la pratica della lettura a ogni prodotto, compresa la pasta, sebbene un servizio della Radiotelevisione svizzera mi avesse qualche tempo fa messa in allarme, ma nello stesso tempo tranquillizzata, sui marchi di pasta italiani, che all’origine sembrerebbero rispettare le richieste dei compratori più esigenti, a parte alcune consistenti tracce di pirimifos -metile, insetticida utilizzato per stipare il grano nei silos.
Il primo piatto potrebbe essere costituito da una lasagna, foderata di buon ragù di carne, con sugo abbondante. Mi tiene in allarme il recente servizio della rivista tedesca Öko-test da cui sono usciti indenni solo tre marchi di salse, su un totale di 21 esaminati, a causa della presenza di micotossine, muffe, eccessiva densità di aromi artificiali, quantitativo eccessivo di sale. Perciò, ribadisco, sto molto attenta alle etichette.
Qualche volta la mia famiglia mi cerca, preoccupata dell’eventualità di un mio pernottamento nel supermercato, a causa del prolungarsi della lettura di etichette: sono nota per perdermi nella lettura di qualunque cosa, anche della confezione di carta igienica, ma preferirebbero che ad una certa ora proseguissi la lettura a casa mia. In ogni caso leggo tutte le etichette e mi vanto di non farmi fottere da nessuno. So come agiscono quei furbacchioni dell’industria alimentare, che scrivono solo al fondo, piccolo piccolo, in modo illeggibile, le sostanze più pestifere, quelle più nocive, nascondendole dietro codici alfanumerici quasi impossibili da riconoscere ma che hanno sempre lettere di alfabeto e numeri. La vince sempre la lettera “E” seguita da tre numeri, ma io so che è una lettera infida: la lettera E sta per Europa. Poi seguono categorie di numeri fra i quali riconosco i coloranti (da 100 a 180), gli antimicrobici (da 200 a 297), gli antiossidanti (da 300 a 321), i regolatori di acidità (da 325 a 385), gli addensanti con gli stabilizzanti e con i gelificanti (da 400 a 495), gli agenti lievitanti e il sale (da 500 a 585), gli esaltatori del gusto (da 620 a 640), e infine c’è un gruppo indefinito, tuttavia definito “di sostanze varie”, che funziona come la sorpresina negli ovetti (che va da 900 a 1520). Spesso, senza numeri si aggiunge la dicitura: aromi. In mezzo a tutte questi codici sono presenti quelli quasi innocui e quelli che in modo acclarato sono in grado di scatenare tumori; alcuni additivi furono ritirati dopo anni e anni di diffusione scriteriata. Sia chiaro che ogni prodotto, dolce o salato, contiene sull’etichetta un certo numero di codici: evitarli è praticamente impossibile. Ricordo, anni addietro, un servizio sulla rivista The Lancet che dimostrava come a sei coloranti artificiali si imputassero i disturbi di iperattività nei bambini, di disturbi dell’attenzione, abbassamento del quoziente intellettuale, problemi neurologici diffusi nei bambini e nei ragazzi, e una serie di altri disturbi da cui non erano esenti neppure gli adulti.
Le nostre ingenue e scriteriate madri hanno usato per anni i dadi, per dare sapore a minestre e minestrine, ricchi di glutammato di sodio. Ma il glutammato oggi ce lo troviamo dappertutto, negli insaccati, nei ripieni della pasta e nelle minestre pronte. Peccato che il glutammato sia un potente eccitatante dell’ipotalamo, che alteri il microbiota intestinale, susciti problemi metabolici e tanto per non farci mancare nulla ci avvii all’obesità (vale per chi ancora non l’ha raggiunta).
Sulle verdure mi agito un po’, ma alla fine dovrò decidermi, ben sapendo che nessun lavaggio, nemmeno il più accurato, potrà liberare le verdure industriali dai residui di pesticidi; e a poco vale conoscere la provenienza dei prodotti: nessun luogo li risparmia da fitofarmaci e ormoni della crescita. Certo, è vero che in Africa e in Sud America è ancora consentito l’uso di DDT e di una valanga di antiparassitari pericolosi e di erbicidi, ma anche nei civilissimi Stati Uniti non scherzano e è consentita, da una legislazione molto più arretrata della nostra, un’alta concentrazione di sostanze da noi proibite. Del resto, anche in Italia le indagini effettuate riguardano settanta tipi di pesticidi su cinquecento: per tutti gli altri che Dio ce la mandi buona.
Il buon vino della mia regione non mi darà problemi, ma qualcuno fra gli ospiti desidererà bevande gassate, che contengono acido fosforico, colpevolizzato per la caratteristica di erodere lo smalto dei denti, e non solo.
Servirò pesce? Si sente così tanto parlare del mercurio che finisce nelle sue carni. Oppure opterò per la carne? Ma quale carne? Quella proveniente dagli allevamenti intensivi o, meglio, catene di montaggio delle carni, che si reggono sul massimo sfruttamento possibile e dove viene ammassato un numero spaventoso di animali, costretti uno vicino all’altro e uno sull’altro a “vivere” stipati in una densità orribile e a subire la somministrazione di farmaci : una necessità che non è sufficiente tuttavia a evitare ceppi batterici resistenti agli antibiotici.
Non posso servire solo broccoli e cipolle con olio d’oliva, bacche di goji, semi di lino, semi di zucca e curcuma in un pranzo di Natale, anche se parrebbero gli unici cibi consigliati come elementi naturali in grado di contrastare l’invecchiamento naturale!
Per il panettone mi concederò qualunque deroga nell’applicare attenzione: voglio che sia buono e basta, che la confezione sia da sballo, la crosta dorata, abbia una fragranza inebriante: poi se ci fa malissimo, pazienza. O no?
Pranzo di Natale? Non posso farcela: troppa fatica scegliere. Forse prenoterò all’ultimo momento da qualche parte: ahimè è possibile che troveremo posto soltanto presso una famosa catena di fast food dove ci serviranno carne bovina giunta a fine carriera. È vero che ficcano E900 nelle patatine e nei filetti di pollo, E171 e una serie di acidi per prolungare la fame, e anche, a quanto pare, un po’ di cellulosa di legno, per dare consistenza al formaggio grattugiato ma anche alle polpette, insieme ad una ulteriore serie imprecisata di additivi. Ma almeno la responsabilità sarà loro, non mia!
Scusate, scusate… ma state già chiudendo? Perché le inferriate stanno scendendo? Mi scusi, signore… non se ne vada… io sono ancora qui…
Oh santo cielo… ma dovevo finire di leggere questa etichetta… ah, temo che avrò tutta la notte per leggere. Ma come farò? Domani è Natale!