L’ALBERO DEI BUONI FRUTTI. 3a PARTE di Domenico Diaferia
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Fu un massacro. Gli uomini, uccisi. Le donne in salute trascinate via, alcune con i loro piccoli, che sarebbero diventati futuri guerrieri al loro servizio. E i ragazzi più grandi? Qualcuno riuscì a fuggire a valle correndo a rompicollo. Ma uno era rimasto lì. Non vedendo altra via di fuga, si arrampicò sul grande albero nascondendosi bene tra i rami più alti fitti di foglie. Rimase a lungo senza fiatare. Era sconvolto da ciò che aveva visto. Terrorizzato soffocava singhiozzi disperati. Si udiva ancora rumore di voci e di passi.
Passò del tempo, allora si fece un giaciglio tra le ampie curvature dei rami. I primi giorni riuscì a sfamarsi con i frutti più alti non toccati. Quando questi finirono pensò di essere costretto a scendere per procurarsi altro cibo, cosa a cui non era abituato.
Appena fu a terra s’incamminò verso il villaggio. Qui lo raggiunse l’odore nauseabondo delle capanne bruciate e dei pochi resti umani, irriconoscibili dopo gli strazianti banchetti di corvi e avvoltoi che per giorni avevano invaso quel luogo.
Cercando di vincere dolore e ribrezzo accatastò le ossa rimaste su del legname e bruciò il tutto com’era loro usanza. Muovendosi con prudenza e ispirandosi al comportamento di alcuni animali, scoprì il sapore di certe erbe, di frutti su alberi che non conosceva e di altri piccoli e saporiti tra grandi cespugli. Per dissetarsi c’era sempre la fresca acqua del torrente, dove non avrebbe più sguazzato con gli amici…
Di tanto in tanto udiva rumori improvvisi: non capiva se di animali o di uomini. Pensò che le sue discese non erano prive di pericoli: pur a costo di qualche digiuno, era più sicuro il suo rifugio sull’albero.
Una mattina, svegliandosi, vide davanti a sé un bel frutto maturo. Non credeva ai suoi occhi. A differenza di quelli di una volta, aveva un colore rosso vivo, lo addentò: il sapore non era dolce come una volta e il succo era rosso sanguigno. Era comunque sufficiente a sfamarlo. E così avveniva ogni mattina.
Un giorno, commosso da questi doni, abbracciò l’albero e disse: «Grazie, amico. Tu sei sempre stato padre e madre per noi. Tu sei albero di vita». Si ricordò delle parole pronunciate una volta dall’anziano del villaggio: «Di alberi come questo ne esistono solo dieci nel mondo. Sono alberi speciali: uniscono il centro della terra al culmine del cielo mantenendoli in equilibrio e permettendo così la vita sulla terra. Per questo dobbiamo sempre onorarli e difenderli».
Il tempo passava e il ragazzo cresceva, ma non osava scendere dall’albero: spesso udiva passi di soldati armati o persone in fuga. Ma nessuno osava fermarsi in quel luogo, che era stato terra di morte.
Si sentiva solo e aveva una gran voglia di conversare con qualcuno. Chi erano i suoi unici compagni tra quei rami frondosi? Gli uccelli, tante specie di uccelli di cui non conosceva il nome: erano passeri, fringuelli, merli e altri e poi quelli di passo che durante le migrazioni facevano sosta in quel luogo tranquillo. Li riconosceva dalla diversità del canto e riusciva a capire ciò che comunicavano ascoltando il variare della modulazione: poteva essere un fischio, un gorgheggio, un trillo, un gorgoglio. Imitandoli poteva così farsi lunghe chiacchierate cinguettando con loro.
Si divertiva e si accontentava di questo. Ma talvolta la nostalgia e il dolore erano intensi e allora piangendo cercava di ricordare il volto dei genitori, degli amici, di tutti. Non sapeva più cos’era diventato: un uomo inerme e un uccello senza ali. Era incapace di affrontare un mondo fattosi violento e neppure poteva volare lontano per sfuggire quel mondo. Talvolta gli arrivavano da lontano rumori di ferraglie e di grida. E poi silenzio, tanto silenzio.
Il tempo scorreva. Quel ragazzo capace di muoversi e saltare liberamente da un ramo all’altro si era fatto uomo, infine era invecchiato. Ormai rimaneva adagiato, immobile tra i rami. Rinsecchito pareva uno dei rami lui stesso. Finché una notte, eccezionalmente rigida, spirò, non riuscì a emettere neppure un tenue cinguettio. Il suo scheletro a poco a poco si unì ai rami e al tronco dell’albero fino a diventarne una cosa sola, indivisibile, indistinguibile.
Un giorno arrivò una donna su quell’altura da cui si vedeva tutta la valle. Singhiozzando si sedette ai piedi dell’albero e iniziò a lamentarsi: «Oh povera me! Quei bruti della montagna hanno costretto mio marito ad andare a combattere con loro non so quale guerra, lui che è solo un contadino… Vivevamo in pace ed eravamo noi donne a guidare la vita del villaggio. Ora quelli si sono impossessati di tutto, e per i debiti che ho fatto perderò anche la casa se mio marito non torna: è ormai un anno che è partito e temo che sia morto. Finirò come serva di quel mio viscido vicino. Che posso fare?»
Un uccello spiccò il volo dall’albero e si diresse verso la pianura. Dopo un po’ di tempo tornò e si mise a cinguettare vivacemente.
In quel momento si udì una voce che disse: «Ascolta, donna». Lei sobbalzò non capendo da dove venisse quel suono, si guardò intorno ma non vide nessuno. La voce rimbombava come se uscisse dal vuoto tronco dell’albero.
Rimase ammutolita, poi la voce continuò: «Non ti disperare, tuo marito è vivo, è a un giorno di cammino dalla vostra casa. Questa notte chiuditi dentro e domani mattina aspettalo sulla strada verso oriente. Il tuo cuore già lo sente».
La donna pur spaventata e stupita, si rallegrò e disse: «Se è vero ciò che dici, chiunque tu sia, ti ringrazio per queste parole di conforto». Abbracciò l’albero e scese di corsa verso casa.
Qualche giorno dopo arrivò un uomo disperato con una lunga corda: «Voglio farla finita!» disse, «M’impiccherò a quest’albero. Mia moglie continua a tradirmi, ne sono sicuro: è sempre fuori casa. Lei dice che si sente soffocare e ha bisogno di muoversi, camminare, correre con il cane: per andare dove? Io lo so…»
Lanciò la corda attorno a un ramo, fece un bel cappio e messo un tronco sotto i piedi per farlo poi ruzzolare, tentò di impiccarsi. Ma il ramo si spezzò e lui rotolò a terra. Deciso, riprovò con un altro ramo che gli pareva più robusto, ma anche questa volta il ramo si ruppe e lui cadde a terra.
Cominciò ad imprecare: «Stupido albero, non sei neppure capace di aiutare un uomo ad impiccarsi?»
Si era levato nel frattempo un vivace cinguettio di passeri svolazzanti. Anche il terzo tentativo fallì: il ramo spezzandosi, gli cadde sulla testa. Rimase così steso a terra, intontito e dolorante. Poi si sedette e pensò: «Stupido che sono… Questa corda non è per me, è per lei! Se vuole correre, la lego e la faccio zampettare per il recinto con la mia cavalla. No, forse è troppo. Se si arrabbia non la rivedo più e io questo non lo voglio. Potrei proporle delle gare di corsa, fino al bosco: chi arriva primo vince un premio, sì, io la faccio vincere così lei è contenta e la premio anche con un regalo. Bisogna che cominci ad allenarmi…» Arrotolata la corda, se ne scese veloce verso casa.
Un giorno arrivarono passeggiando tre giovani donne. Si sedettero sotto l’albero per una sosta. Erano amiche tra loro e avevano lo stesso problema. Si lamentavano che i loro mariti, pur essendo sposati solo da pochi anni, non avevano più desiderio di fare l’amore con loro. Dicevano che erano stanchi per il lavoro, ma la verità era che preferivano trovarsi a casa dell’uno o dell’altro, per chiacchierare e bere alla grande tanto da tornare a casa ubriachi. «Quei tre amiconi dei nostri mariti sono un vero disastro!»
Alcuni uccelli volarono subito verso il villaggio e dopo un po’ tornarono cinguettando a lungo.
Le tre donne ebbero un sussulto quando udirono una voce fonda: «Quei tre uomini bevono del vino di pessima qualità e con il tempo avranno problemi di salute. Chi glielo vende è un farabutto. Voi comperate del vino assicurandovi che sia di ottima qualità e incontratevi anche voi insieme nella casa che è libera. Bevete e state allegre, accompagnate il vino con del buon cibo che avete preparato e divertitevi, fate festa finché non torna il padrone di casa. Vedendovi così di buon umore, vorrà anche lui assaggiare il vostro vino e voi dategliene in abbondanza. Fate nello stesso modo il giro delle tre casa e vedrete che tutto si risolverà. Potrete così stare tutte e tre in letizia con i vostri mariti o, se vi garba, con quelli delle amiche, a turno…» Una di loro disse: «Che idea fantastica! Avevo sempre desiderato farlo…» Dopo di che se ne andarono liete, già pregustando la serata. Una si voltò e disse: «Grazie, chiunque tu sia!»
Nessuno di quelli che erano stati sotto il grande albero (e molti altri ne furono attratti) parlò mai di voci misteriose. Temevano di essere presi per matti. In effetti loro stessi, col passare del tempo, cominciavano a dubitare di avere davvero udito una voce.
Infatti ogni risposta esprimeva e chiariva il desiderio profondo e più autentico di chi là osava aprire con sincerità il suo cuore. L’albero era come uno specchio di verità e un piccolo rifugio a chi vi faceva sosta confessando i suoi piccoli o grandi problemi, lontano dal grande caos del mondo ormai infiammato da continue guerre.
Anche in questo modo il grande albero continuava a dare i suoi buoni frutti. Poiché esso era antico quanto il mondo: le sue radici ne conoscevano le ere, i venti gli avevano portato da ogni angolo della terra la voce e le storie di generazioni di esseri.
Muto come un legno e sonoro come un tamburo o un flauto per risvegliare o confortare.