DISSETANTI MEMORIE ESPLOSIVE di P. P. Roe (Pietro Paolo Capriolo)
Al cameriere che s’accosta servizievole al tavolino del depor per prendere l’ordinazione, oggi, suonerebbe parecchio strana la richiesta di portarvi sul vassoio una bicicletta, e semplicemente così, senza nemmanco il bicchiere.
Per capire cosa si intendesse nel secolo scorso, bisogna viaggiare a ritroso nel tempo e spostarsi nel territorio alessandrino, precisamente a Tortona. Qui, un certo Angelo Abbondio (che non ha alcuna attinenza con il curato manzoniano di Pescarenico) nel 1889 fondava quella che poi divenne l’omonima e “Premiata fabbrica bibite gassate”.
Se guardiamo i superstiti antichi marchi di biscotti, cioccolato, liquori… notiamo che vantano tutti premi, medaglie e/o qualifiche di fornitori di qualche real casa. Di fatto i prodotti portati alle grandi esposizioni e che s’imponevano al gusto del raffinato pubblico erano davvero di qualità e molte ricette sono giunte intatte anche a noi.
Il signor Abbondio, secondo mio parere e di chissà quanti giovanissimi estimatori dei primi del ‘900, meriterebbe comunque un premio per la soluzione adottata per vendere ad una vasta clientela quella che poi non è altro che acqua dolce e frizzante aromatizzata al limone, cioè la comunissima gazzosa.
Vini effervescenti erano da tempo commercializzati in bottiglie dal sughero a funghetto e gabbietta metallica di sicurezza, la birra veniva prelevata al momento dai barili alla spina, cioè con un particolare rubinetto conficcatogli dentro, ma per la gazzosa occorreva una pratica soluzione che ne consentisse il consumo al di fuori dei luoghi di ritrovo, fra i giovani e gli sportivi, quando il tappo metallico a corona non era stato ancora inventato.
Qualche anno prima, il britannico Hiram Codd era riuscito a produrre un contenitore adatto proprio a questo scopo, sfruttando il principio di valvola a pressione con sfera. Si tratta di una bottiglia con strozzatura che impedisce ad una biglia di vetro di cadere sul fondo. L’orlo trattiene una guarnizione ad anello in gomma in cui va a posizionarsi la sfera che per la forte spinta sottostante funge da tappo.
La bottiglia veniva riempita capovolta in un barile adatto al recupero del liquido in eccesso e poi sottoposta alla pressione di cinque o sei atmosfere con l’immissione di anidride carbonica (per averne un’idea, consideriamo che le camere d’aria dei moderni cicli da corsa sopportano anche otto atmosfere).
Si sa che la CO2 tende a sciogliersi nell’acqua, ma è in antagonismo con lo zucchero che anch’esso “vuole” far coppia con l’acqua scacciandone il gas. L’equilibrio interno è così abbastanza instabile e basta premere con un dito sulla biglia per far uscire l’aria in eccesso ed usufruire della bevanda. Si dispone così ad un tempo della chiusura e della effervescenza, ad un costo molto contenuto.
Codd, non potendo soddisfare la richiesta internazionale, si decise a lasciar produrre all’estero la sua bottiglia, pretendendo l’acquisto delle sfere di vetro, delle guarnizioni e della particolare strumentazione per darle quella strana forma che doveva essere di esatta misura per consentirne il funzionamento. Le strozzature nel vetro erano tre: la principale per impedire la caduta della pallina nello scomparto di sotto e poi altre due depressioni non lontane dall’orifizio da cui bere direttamente con la bocca, per far sì che la biglia si fermasse lì senza ostruire l’uscita. Si diceva che i ragazzi alla loro prima gazzosa dovessero essere iniziati ad un particolare accorgimento per controllare il movimento della sferetta (un casto imprinting assai diverso da quello per le case di piacere), giacché bere la gazzosa nel bicchiere era da donnette!
Se non la si tracannava tutta e ne rimaneva almeno una metà, si poteva risigillare la bottiglia, mettendoci sopra il pollice, rovesciarla ed agitarla per bene. Il gas rilasciato da questo shock motorio era sufficiente a bloccare la pallina per almeno un’oretta, il tempo di assistere ad una gara sportiva.
Pare che l’unica ditta che fabbricasse la bottiglietta Codd in Italia fosse costituita da una federazione di soffiatori di vetro di Livorno. La richiesta era alta, un po’ per la rapida diffusione della bibita ed un po’ per le “vicissitudini infortunistiche” cui andavano incontro questi recipienti.
Gli operai erano pagati a cottimo e chi più ne produceva, più guadagnava. Noi diremmo che occorresse pigiare sull’acceleratore, ma le auto allora erano ancora poco diffuse, per cui si diceva “pedalare” per indicare il ritmo sostenuto ed il prodotto di tale azione pseudo sportiva, per antonomasia, non poteva che essere chiamato “bicicletta”. E per tutti fu semplicemente bicicletta: nella vetreria, come per gli autotrasportatori, dove la si riempiva, nelle rivendite ed infine in mano al consumatore.
Chiarita l’origine del nome, vediamo perché bisognasse produrne parecchie. I contenitori vuoti, per pochi spiccioli, venivano restituiti, raccolti, lavati e riutilizzati. A differenza degli altri cumuli di bottiglie, queste erano particolarmente saccheggiate dai monelli che ne recuperavano la biglia per giocarci, fracassandole. Da anni non se ne producono più ed i collezionisti che ne posseggono alcune se le tengono ben strette.
Un altro riutilizzo improprio veniva fatto da pescatori niente affatto sportivi. E qui, come si soleva dire, è d’uopo fare prima una breve digressione.
Con la scoperta dell’acetilene, la cui fiamma sviluppa anche 3700 gradi adatta quindi al taglio e alla saldatura dell’acciaio, in un po’ tutte le officine di fabbri di paese come di città comparvero scorte di carburo di calcio per produrre il gas da usare con apposito cannello. La fiamma all’acetilene era usata anche per l’illuminazione. Mio papà mi confidò che da giovane, sulla via principale per Torino, in inverno al mattino presto, poteva vedere dalla finestra passare file di operai che andavano al lavoro in bicicletta, illuminandosi la strada con lampade a carburo. Prima dell’avvento delle lampadine a led, si usava ancora molto in speleologia.
Ritorniamo alla bottiglia della gazzosa ed all’uso che ne facevano i pescatori di frodo. Polverizzavano il carburo e, spostando con un bastoncino la pallina dalla strozzatura principale, ne versavano una bella dose nella parte sottostante: l’estemporanea bomba a mano era pronta all’uso e tutto sommato sicura, finché restava all’asciutto. Scagliata in un laghetto o in un’ansa del fiume, la bottiglia affondava facendo entrare l’acqua che innescava la reazione. Subito si sviluppava l’acetilene che ben presto faceva capovolgere la bottiglia come quando veniva riempita di gazzosa. La pallina, come di dovere, ne tappava l’imboccatura, sigillandola. Il gas però aumentava talmente da superare le atmosfere previste per la bibita, cosicché il vetro non resisteva alla pressione interna e la bottiglia esplodeva. L’urto danneggiava la vescica natatoria dei pesci che, morendo, affioravano e venivano raccolti con un retino.
Della bottiglia “bicicletta” ho sentito più volte parlare da persone con i capelli bianchi, quando i capelli io ce li avevo ancora e niente affatto bianchi, ma l’ho veduta solo in immagine su Internet, mentre dell’acetilene ho un ricordo diretto.
Era l’anno dello Sputnik (questo la dice lunga sulla mia età) e con alcuni coetanei ho assistito alla “messa in orbita” di un barattolo di latta grazie al propellente fornito dal carburo e che si staccò da terra per una decina di metri con un botto significativo. Un ragazzo più grande di noi si degnò di darci questa dimostrazione. Egli l’aveva recuperato dalla cantina del nonno, dal quale aveva anche appreso ad usarlo. Noi cercammo di corromperlo a cederci un po’ di quella sostanza cristallina, ma inutilmente e, ripensandoci, credo che sia stato un bene fosse andata così. Non so gli altri, ma io proprio rassegnato del tutto non lo fui. Era trascorsa solo una decina di anni quando svolsi una privata ricerca presso i fabbri che ormai tutti usavano l’arco voltaico e/o le bombole per la fiamma ossidrica. Alla domanda se avessero ancora del carburo, fui accolto con l’aria di chi si imbatte nella curiosità dell’archeologo: «Eh… Una volta!» e ancora mi ripeto che fu un bene sia andata anche stavolta così.