ODE ANACREONTICA PER MARILÙ di P.P. Roe (Pietro Paolo Capriolo)
Accipicchia, che impresa impegnativa!
Eppure, almeno una l’abbiamo quasi tutti mandata a memoria in quelle che un tempo erano dette scuole elementari e medie (oggi primaria e secondaria di primo grado). L’abbiamo rincontrata volentieri in veste di genitori o nonni aiutando la pargoletta discendenza nelle mansioni di studio casalingo. (1° indizio)
Parafrasi e riduzioni in prosa sono compiti frequentemente assegnati in concomitanza dello studio mnemonico e risulta molto utile che uno smaliziato adulto affianchi nel solingo esercizio domestico lo studentello per rimontare costrutti scomposti da esigenze metriche e per sostituire con termini consueti il lessico a volte arcaico e ricercato del poeta. (2° indizio)
Ora che gli abbiamo affiancato la presenza dell’adulto, come raccomandato prima di taluni spettacoli televisivi, pur tuttavia non si vorrà mica abbandonarlo ai palpiti emotivi dell’eros? I sentimenti consentiti saranno dunque quelli per i genitori, i coetanei, la natura nel suo floreale riproporsi annuale… (3° indizio)
Dacché il De Amicis con il suo libro Cuore ha ipotecato il gravame lacrimoso sugli obblighi di lettura dell’adolescente condannato a «piangere piangere piangere (ancora!)» (mi piace dirlo con le parole del Pascoli [La voce], ma è un elemento fuorviante non un indizio, e me ne servo per condividere e confessare la mia giovanile protesta contro quell’Edmondo là) ai giovanetti si propone in versi il dolore per qualche elegiaca morte d’infante, piuttosto che quello causato dai dardi di Cupido. (4° indizio)
Se poi per rimare con “rallegra” aggiungiamo l’aggettivo “negra” correttamente scevro da offensivi risvolti razziali perché indirizzato alla terra della sepoltura, abbiamo cinque indizi per far emergere senza ombra di dubbio anche il titolo della poesia: Pianto antico.
Questa è la famosissima ode anacreontica che riposa nel fondo del nostro cuore (non per nulla, studiare a memoria, in inglese si dice by heart).
Questo lungo preambolo in stile da pseudo critico letterario, per introdurre una mia fatica poetica di circostanza. Vediamo come andò che dovetti affrontare il cimento.
Lungo tutto il perimetro dell’allora nuova scuola furono piantati tanti alberelli adatti a sopportare le offese dei monelli e richiedenti poca manutenzione. Quasi sicuramente erano e sono tuttora carpini, dal bel portamento ed un diluvio di foglioline. Decenni dopo, però erano divenuti alberi di tutto rispetto, senonché alcuni ombreggiavano gli orticelli delle case confinanti. Ci sono regole comunali che stabiliscono le distanze e quali piante sono consentite. La grande città, in difetto, dovette dunque inviare operai ad abbattere alcuni di questi suoi alberi prevaricatori nei confronti delle coltivazioni di pomodori, zucchine, carote, insalatine…
Sotto l’azione di lame motorizzate la vendicativa giustizia fu compiuta e sul prato della scuola rimasero le loro spoglie mortali che rappresentavano però anche una buona provvista di legna per la consueta giornata autunnale delle caldarroste.
Una collega intraprendente convinse gli operai a lasciarcene una scorta tagliata già di misura per il grande bidone metallico sopra il quale, a distanza di mesi, si sarebbero arrostite le castagne.
Chissà come e perché, lasciarono anche una porzione di tronco, pesantissima perché impregnata di linfa primaverile. Stoccata con le ramaglie sotto una scala di sicurezza esterna, assolato luogo di stagionatura, quando giunse l’autunno si presentò il problema di come utilizzarla, data la voluminosa integrità. Il marito di un’insegnante disponeva sì di una motosega, ma si optò per portargli quel blocco di legno direttamente a casa: che lo facesse a pezzi lì per alimentare il caminetto. Con questa scusa seguì un autoinvito a cena da Marilù.
Con vini e dolci di rito, ci presentammo all’appuntamento con un voluminoso scatolone ben confezionato, con tanto di biglietto d’accompagnamento che doveva essere «Qualcosa di spiritoso, mi raccomando!» come sentenziò l’intraprendente collega di cui sopra, affibbiandomi l’incombenza di spremermi le meningi.
L’occasione costituisce il motivo ispiratore, ma un ciocco di legno, se non si è del calibro del Collodi, è ben altra cosa dalla cardioversione di Assunta, quando di getto mi venne da scrivere «Al cuor non si comanda: gli si dà la scossa!» Avrei dovuto pensarci.
Per vincere la sindrome da foglio bianco, riandai alla scena dell’abbattimento perpetuato da vindici giustizieri su quell’ombra proditoria che si allungava ben oltre lo spazio verde dove le insegnanti sostavano su una panchina a sorvegliare i bambini in ricreazione dopo pranzo. Con quella creatura vegetale quasi ci parlai rammaricandomi che, seguendo un suo intrinseco dettato evolutivo, non si fosse limitata alla statura dei regolamenti e fosse cresciuta ben oltre il consentito, divenendo così complice di reato e dannosa e solo perciò, a differenza dei rigogliosi carpini vicini, meritevole d’esser tolta di mezzo come una vecchia pianta pericolosa d’un viale, da eliminare per legge, non per malattia.
Dura lex sed lex fu il primo pensiero di fito-empatia, ma poi quella reliquia legnosa, condannata ai tarli ed alla fiamma, scatenò l’ispirazione di stravolgere i sentimenti carducciani, mantenendone però i ritmi e lo schema. Ne nacque:
Pianta antica
D’albero, cui chiedevi,
fatto per nulla strano,
che il tondo deretano
ti ombreggiasse allor,
da quel cortil solingo
rinseccolita a iosa,
una porzion riposa
in questo scatolon.
Quivi riposta ascosa,
ché fiamma alfin sprigioni
sotto i tuoi pentoloni
caldo in vivace ardor.
Oh, se a bollir t’appresti,
con tale vampa ardente,
due spaghetti al dente,
li gradirem di cuor !
Che i barbuti poeti, il greco Anacreonte e l’italico Giosuè mi perdonino e voi, magari per rifarvi la bocca, andate a rileggere la poesia del Carducci.