LIBERTÀ DI PENSIERO, LIBERTÀ DI STAMPA di Letizia Gariglio
Se fin dall’inizio delle nostre pubblicazioni di Parole in rete non avessimo scelto di evitare l’uso di immagini (sempre così invadenti rispetto ai testi!) questa volta l’immagine tratta dai documenti di Reporters Sans Frontières sarebbe davvero stata efficacemente parlante: Italia al cinquantottesimo posto! Di che?
RSF è un’organizzazione internazionale che ha come obiettivo la difesa dell’informazione. Tutti gli anni stabilisce e stila la classificazione mondiale della libertà di stampa in 180 Paesi.
L’Italia è scesa dal 41° al 58° posto della classifica, ha ulteriormente perduto terreno di libertà. Prima di noi, ai primi posti, compaiono non solo inossidabili Paesi del Nord d’Europa, come Norvegia, Danimarca e Svezia, che occupano i primi tre posti e hanno nella loro storia un consolidato processo di democrazia attiva che ha loro permesso di brillare in molti settori, ma anche altre Nazioni, di assai più recente avvicinamento allo status di paesi realmente democratici, con substrati culturali assai meno interessanti di quello che noi attribuiamo alla nostra amata Italia.
Ma quali sono, secondo Reporters Sans Frontières, le ragioni della nostra retrocessione? La libertà di stampa da noi in «continua a essere trattenuta da organizzazioni criminali, particolarmente al Sud del Paese, come anche da gruppi che usano violenza e che hanno visto un significativo aumento durante la pandemia». Quanto al contesto politico, RSF afferma che i giornalisti italiani nel loro insieme lavorano in un clima di libertà (quantomeno apparente, io aggiungerei), ma cadono volentieri «nella tentazione di autocensurarsi, per conformarsi alle linee politiche dell’organizzazione editoriale».
Il quadro legale, secondo RSF, soffre di una certa paralisi che impedisce o rallenta l’approvazione di disegni di legge idonei a preservare e migliorare la libertà giornalistica. D’altronde, il pericolo di diffamazione scoraggia scelte che richiederebbero una certa audacia. Anche il contesto economico non aiuta, a causa del processo di precarizzazione della professione, che necessariamente limitano l’esercizio, il vigore e soprattutto l’autonomia del giornalista.
La mancanza di coraggio si è ampiamente manifestata negli ultimi anni, nella narrazione della pandemia e, oggi, nella narrazione della guerra in Ucraina, dove non vi è proprio nessuna possibilità, in seno ai mainstream, di esprimere opinioni e riflessioni che si dissocino dalla versione ufficiale sostenuta dal governo. Impossibile per i giornalisti dipendenti o collegati con i media mainstream esprimere dubbi, perplessità, tentare ragionamenti finalizzati a nuove aperture della mente nei confronti dei problemi, degli eventi in corso, impossibile persino offrirsi in ruoli di conciliazione fra parti opposte. Vietato interrogarsi, vietato avere un’intelligente posizione di studio e di ricerca, vietato usare forme di pensiero laterale, vietato persino tentare di disegnare la complessità dei fenomeni: la narrazione odierna degli accadimenti è uniformemente armata, porta la stessa divisa, disconosce sia il dialogo sia l’ascolto. Qualunque comunicatore, o giornalista, o filosofo abbia tentato di illustrare un ragionamento in sede di un mainstream non ha avuto la possibilità di portarlo a termine, ha dovuto lottare con interruzioni continue ed è stato seguito da dileggi e sarcasmo.
Se la libertà scarseggia nei media tradizionali e sulla carta stampata (sempre più asservita a logiche di potere e di mercato) si è affermato invece il nuovo sistema di produzione e di distribuzione dell’informazione attraverso Internet, dove la libertà è molto più ampia, ma che è assoggettata ai motori di ricerca e ai social media, sottoposta al loro giudizio e alla loro ben conosciuta capacità di censurare. È vero che la Rete rappresenta, rispetto alla produzione, il massimo dell’apertura, ma è anche vero che la distribuzione dell’informazione è – ancora una volta! – in mano a pochi, cosa che incide profondamente, sia in via teorica che di fatto, sulla reale libertà di informazione. Vero è che la libertà di espressione espressa attraverso la Rete non trova paragone nei mezzi tradizionali. Non dimentichiamo che la convergenza del pensiero unico intorno a una norma e il suo annidarsi nei media, contribuisce a rinforzare la repressione di opinioni difformi: ha sempre preluso, nella storia, a forme di dittatura.