SIATE REALISTICI, CHIEDETE L’IMPOSSIBILE (LE PAROLE DEL ’68) di Letizia Gariglio
Siate realistici, chiedete l’impossibile (LE PAROLE DEL ’68) di Letizia Gariglio
Cinquant’anni distava il ’68 dalla fine della prima guerra mondiale. Cinquant’anni dista il tempo odierno dal ’68 e se non fosse per la nostalgia di alcuni che ricordano quel periodo per esperienza diretta forse sembrerebbe un evento anche più lontano. Ma c’è una differenza: il ’68 pur essendo vissuto dai giovani d’oggi come cosa dell’altro secolo, dunque lontanissima, quasi antica, è percepito come una sorte di anno di fondazione. Di che cosa? Di tutto ciò che è venuto dopo, che si è posto al di là della linea tracciata del ’68 stesso, di tutto ciò che è cambiato dopo nel costume, nei fermenti sociali, nel lievito culturale, nel modo di pensare, agire, vestirsi, pettinarsi, nei comportamenti relazionali, nella gestione dell’amore e del sesso, nella condizione della vita individuale. “Dopo” il nostro paese uscì con una gran voglia di modernità, guardando al progresso nelle conquiste della collettività, della società e della vita civile.
I protagonisti del ’68 sono, ieri come oggi, molto celebrativi. Formavano, allora, una sorta di tribù, uniti dalla gioventù e da una frenetica frequenza ormonale: erano una marea di giovani. A distanza di ventitré anni dalla fine della seconda guerra mondiale, che i loro genitori avevano vissuto, i baby boomers si sentivano un corpo solo e, fra i rimasti, oggi, a cinquant’anni di distanza, in un certo senso ancora aleggia fra loro quella ferma seppur difficilmente spiegabile sensazione di formare tuttora una tribù, di cui sentono il privilegio dell’appartenenza. Inesistenti i pentiti. Oggi, per i sessantottini, il ’68 è ancora motivo di fierezza esistenziale.
Ieri l’autocelebrazione si fondava sulla fortissima sensazione che qualcosa di fondamentale stesse accadendo, in grado di determinare una svolta nel mondo; oggi si fonda sull’autoconsapevolezza di aver fatto parte di una magia irripetibile. Certo: la magia di essere giovani insieme, innanzi tutto, ma anche quella di essersi trovati su una sorta di limen, su una soglia al di qua della quale il mondo si fondava su vetuste autorità, al di là si sarebbe fondato sul potere della collettività, delle assemblee, della partecipazione.
Non c’era Internet, niente telefonini, nemmeno uno straccio di fax, televisione gerontofila, eppure il movimento esplose in tutta Europa, in America Latina e negli USA, dando forma a una intera generazione. Ma come facevano le idee e le parole a trasmettersi da un posto all’altro quasi contemporaneamente? Sugli striscioni cambiava la lingua ma gli slogan, che avevano attraversato mari e oceani, erano gli stessi. Tutta la richiesta culturale veniva dai giovani: la musica, l’abbigliamento, la liberazione del sesso, la rivendicazione del genere femminile, il desiderio di uguaglianza, di democrazia, di libertà…
Nel tempo molte fermentazioni si sono perdute, gli entusiasmi ribollenti si sono calmati, la furiosa voglia di portare a galla quanto di politico ci fosse in vite individuali si è sedata, trasformandosi nel peggiore dei casi in voglia di antipolitica, di anti-istituzionalismo, anti-socialità. Però in mezzo c’è stata la rivoluzione sessuale, i sostanziali cambiamenti dell’immaginario collettivo; c’è stata la fiducia che istituzioni arcaiche, macchinose e immobiliste, potessero mutare sotto la tumultuosa spinta di trasformazione della società.
A partire dagli anni ’80 la spinta di fiducia in sé e nella realtà («siate realistici: chiedete l’impossibile», recitava uno slogan del ’68 ) si trasformò e la stagione dell’ottimismo conflisse con ondate di pensiero neoliberiste e con l’involuzione del progressismo politico. Non fu più l’immaginazione ad essere al potere. Ancora una volta fu solo il denaro.
(agosto 2018)